Attila l'unno in una stagione all'inferno.

Non avrei mai pensato di provare un piacere così masochista e vagamente anale, a secoli dalla sfioritura dell’acne metal, nell’aggirarmi, vampiresco ed eccitato come un cecchino che ha appena inquadrato la testa del nemico, chino su questi solchi, in cerca di una vittima.

Tant’è. 

Una versione adulterata del serpente Ophite (forse cinese, forse appartenuta a Von Teppesh in persona) si è nascosta in un baraccone nel deserto australiano, dove figli errabondi di Odino lo hanno nutrito di sangue fresco ed enteogeni biblici, educandolo alla evangelizzazione del bush per il battesimo della nuova alba black-doom-grind-harsh-brutal-freakedelica.. 

Ci mancherebbe altro, non sono un esperto in materia, ma questo 12’ degli australiani Portal è l’ululato fatale, gettato nella più fetida delle fogne notturne, tra le carcasse del “fu” metallo nordico e la ripugnante mostra dei poveri teschi, a seconda dei gusti, di un Mayehem amante dell’hashish che usa il suo scintillante spadone boreale per fendere i miserabili nostri orecchi con la peste di animalesche grida, e del povero Burzum, invecchiato, nato-morto e risorto tanto che non posso arrendermi all’idea che qualcuno, da qualche parte debba ancora pagare per lui. 

Ma qui siamo su un altro pianeta, amici. Trattasi di indecente inno all’omicidio, perennemente in preda ad un cocktail di Rizen e Cool Drink of Water Blues suonata a +40 di pitch per i cari ospiti delle umide celle di Guantanamo Bay. 

Come sempre gli ugolini di Profound Lore, (gente nota per l'abitudine ad indossare pelli animali e cingersi il capo con i denti dei nemici), ci regalano il desiato tormento (la riscossa del metallo pesante??), licenziando questa magnifica (ancora, a seconda dei gusti) serie di sciagure dal brutalmente “Profound”, praticamente un dizionario con lemmi tipo “grind valacco”, “siderurgia industriale canzonesca” e “hamburger umani con amianto e scaglie di Tolkien”. 

Signori, si tratta dell’ergastolo inflitto a Matthew Bower, il quale, latitante e prescritto, ha giovato della estinzione di tutti i processi a suo carico per i reati sonici commessi sotto effetto di cazzo duro, testardaggine e volume ipertrofico e, così facendo, ha potuto impartire i segnali morse inequivocabili dall’esilio nella discarica di Skullflower, l’unico metro di paragone possibile (tra milioni di divergenze).

Qui c’è l’estetica (e perché no anche l’etica) del metal ma senza quella retorica nazista, satanista e, se vogliamo, onanista dei maestri nordici. 

Su tutto regna lo stesso malefico chitarrismo, roco e industriale come un disco di Lunz nella colonia penale di Bergen, o piuttosto una ipotesi sperimentale di brutal core alla deriva, ma poi piombano cose estranee, bieche e tossiche, dentro il canone, ma fuori dal già udito, e i timpani colanti si rimarginano, stupiti e fatti fessi: droni? Percussioni mortifere? Freak metal? Psychbrutal? Il miracolo autoreverse di un dio bestiale?. 

Acqua. Laddove la sezione ritmica, (una delle peggiori mai ascoltate), sventaglia imbizzarrite raffiche para bellum, salendo e scendendo in fecali intestini  splatter-core i “vocali” restituiscono bestemmie inferte con una feroce disciplina claustrale attraverso un tubo di chiodi, come l'esito di una feroce copula tra l'uomo e la belva che smanda growling mentecatti tipo anguraro finlandese in preda ad una crisi astinenziale da doom. 

E’ chiaro, si tratta di lucida preconizzazione del futuro, alle spalle della quale, sia che regni un’idea di marketing (non credo), sia che si tratti di vera e propria “determinazione cieca”, è presente la dannata rabbia di chi vuole lasciare una bella cicatrice, quantomento a chi sa ricevere i fendenti, in questa nuove albe dei morti viventi, caro Burzum.

Così come spesso succede ai fortunati ed ai coraggiosi che possono vantare di aver setacciato la merda trovandovi un bel diamante, ecco che sotto l’apparente confusione di becerume e gratuità trucide, emergono – seppure a fatica – cattiverie talmente fatte da polpettizzare i Gorgoroth, ipotizzandone piuttosto una versione in scatola da cedere in pasto ad affamati cuccioli della hitlerjugend reoconfessa delle sevizie praticate ai giovani del mondo. Tuttavia questo disco è del tutto privo di quella ideologia, di quei sottomessaggi, criptosegnali e inneggiamenti che hanno, oramai, lasciato a quella gloriosa stagione della “musica”, solo la carta polverosa dei libri di storia.  

Eh, si, sentite tutto il tempo che è passato dal culto apocrifo di “Dawn of the Black Hearts”, e poi ditemi se il nuovo brutal, scevro di maledizioni a Cristo in persona o lodi a Mammona, non alberga nel lussureggiante continente australe, o se la più plausibile delle geometrie apocalittiche dei Maya non è qui, tritata come carne umana da questi axemen australo-celti in calore, figli bastardi degli stessi che spezzarono le reni allo snobismo romano cesaro-augusteo al tramonto, nel mattatoio di Alesia, qualche anno prima della famosa venuta.

Cannibalizzante al punto che non capisco tanto accanimento, così cieco e crudo che è difficile avvicinarsi, se non con una bella latta di gas paralizzante.

Un disco di cui avere seriamente paura.

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