"Tutto quello che vediamo o che sembriamo non è che un sogno dentro un sogno?"

"Claudia Brucken, si chiama, la cantante, ha una voce stranissima, quasi gutturale, a tratti... gran gruppo, eh? Sentitelo, ragazzi, è fantastico, c'è cuore, c'è tecnologia, loro suonano da dio, tirano come treni e gli ospiti sono pazzeschi..." Diana ce la menava abbastanza, con 'sti Propaganda. "Ma chi?" Le dicevamo. "Quelli di Duel?" In effetti il brano girava in radio da matti, era diventato una vera solfa, c'era un bel tiro di synth, ma a metà degli anni ottanta un bel tiro di synth se l'era fatto anche James Brown, perdio, era il suono del momento, era.
E lei: "Duel fa cagare, è per ballare, il resto è tutta avanguardia che si sporca le mani col mainstream, intellettuali da classifica, direi... Che figata, cantare per una band così..."
Diana non era propriamente bella, era magrissima, con i capelli platinati acconciati alla moda del momento, striscia regolamentare fucsia al centro, naso stretto, un po' lungo, ma le donava, occhi profondi e tristi, stracerchiati di nero, orecchini a cerchio, enormi, chiodo consumatissimo, calze a rete nere sapientemente strappate qua e là, decolletées tacco dieci di molte fogge, sempre in groppa al suo Piaggio Sì grigio con tanto di adesivo gigante dei Bauhaus trovato in nonsopiù quale fiera, forse al Gran Balon. Le nostre ragazze, più o meno agghindate come lei, noi maschietti, chi chiodato, chi giaccato, con criniere aerodinamiche pregellate, maniche dei giubbotti e delle giacche piegate a metà braccio, pantaloni stretti antiriproduzione e calzino bianco d'ordinanza.

"Quando navighi lungo la rotta, il tuo sorriso felice, il tuo buffo nome... Un desiderio segreto..."
Diana stava con Amerigo, ma lui ora faceva la naja nei parà e lei, al momento, faceva parte del gruppo di non accoppiati, nella nostra compagnia fatta di coppie e non, componenti in numero intorno ai venti, sempre insieme, al mare, ai concerti, nei pigri pomeriggi caldi sulle panchine di piazza Rossetti o nelle sere in quel localino da trenta posti vicino a San Luca, vicolo più, vicolo meno.
"Com'è la naja, tu che l'hai finita?" Mi chiedeva. "Una merda..." Rispondevo. "Merda coi pinoli, ma merda..." Mi guardava e mi diceva che era quello che le diceva Diego, pari pari.
"E poi, bestie che non siete altro..." Ci apostrofava, riportandosi al discorso iniziale. "... Quale gruppo al suo primo disco potrebbe ospitare David Sylvian e Steve Howe ed inizierebbe un album con un brano cadenzato ed ipnotico, che per testo ha il "Sogno Dentro a un Sogno" di Poe? Questi non sono normali, diventeranno grandissimi!"
Edgar Allan Poe? In salsa Technopop?

"Ti sto accusando d'omicidio, ma davanti al Verdetto sento che annega tutta la gelosia..."
Sessanta e Lode al liceo classico, poi esami da privatista al conservatorio, pianoforte, certo, e frequentazioni goth e dark, saltuariamente corista nel gruppo wave in cui suonavo io, con quel suo bell'inglese dalla cadenza mancuniana appreso da una mamma che aveva ormai fatto armi e bagagli ed aveva riportato i suoi centoquaranta chili a New Islington, stufa di un marito infedele che si giocava anche il divano, in certe sere.
"Diana-Quella-Strana" guardava tutto e tutti con un'aria quasi assente, trasognata, come di chi imparava l'asprezza del mondo senza perdere la purezza d'animo, sapeva essere allegra e comunicativa per poi richiudersi in se stessa e muovere la testa al ritmo della musica. Poi quei lividi sulle braccia, quel graffio sul collo, quel non rispondere al telefono per giorni, per poi riapparire, così, come da un'altra dimensione. La mia ragazza, che la conosceva dalle medie, gliel'aveva chiesto, se aveva problemi con qualcuno, sembrava sempre che l'avessero appena menata, ma non Amerigo, che mai l'avrebbe maltrattata e poi era a Pisa... e quei segni... Il gatto? Belin, che unghie! Hai sbattuto contro la porta dell'armadio? Però, che sfiga.

"Stanno occhi negli occhi, vincitori e vinti, feriti dall'invidia, tagliati a fondo, davanti alle loro illusioni le cicatrici del vecchio romanticismo restano sulle loro guance..."
Localaccio, a Nervi, quella sera d'inverno, vento gelato fuori e cento bestie sudate dentro, le casse che mandavano PMachinery a palla, quei synth disperati e tonanti, il basso cupo e pesante, Diana ballava con Monica e Claudia, sbattevano la testa di qua e di là, lei novella Siouxsie esile come Debbie, sofferta come Patti e indecifrabile come Laurie che cade a terra, in mezzo a chi balla, avrà bevuto, non lo regge l'alcool, ma lei piange, si dispera, grida, sbava, la portiamo fuori in quattro, io ne ho viste troppe, subito le prendo le braccia e gliele guardo, macché, niente buchi. Lei mi abbraccia, un po' si calma, la portiamo al porticciolo, la facciamo sedere, non le chiediamo niente.
Poi una ragazza le dice, carezzandole il viso: "Ora ci dici tutto, va bene, e se non li vuoi i ragazzi si allontanano per un po'..." Lei annuisce, noi facciamo cento metri e ci sediamo sul molo. "No..." Dico a loro che mi interrogano con gli occhi. "No, buchi sulle braccia non ne ha, l'ho pensato anch'io..."
Quando tornano le ragazze piangono tutte, i visi rigati dal mascara che cola, la mia mi chiede un gettone (sì, un gettone...). "Chiami suo padre?" Le chiedo. "Chiamo la madama, chiamo..." Mi risponde. "Lei non ne ha il coraggio, suo padre, quella merda, sono mesi che la violenta, da quando la madre è tornata in Inghilterra, la pesta... Io lo denuncio, voi fate come cazzo vi pare..."
Diana, cazzo, è vero? Salivazione zero, respiro sospeso, cazzo... Lei vomita, prima, poi ci urla piangendo che sì, è vero, che dovrà abortire, è incinta, cazzo, è incinta, quel bastardo l'ha riempita di botte, quella sera, quando lei gliel'ha detto, ci mostra i lividi sulla coscia e sulla schiena... E tu sei andata a ballare, perdio, sei venuta a Nervi, così... Diana, Diana...
Noi ci guardiamo in faccia, due cercano le chiavi della macchina, ma che cazzo, sono nel chiodo, al locale, uno le prende le chiavi di casa dalla tasca, dai che lo becchiamo a casa, dai che gli caviamo il fegato con la forchetta...
La mia ragazza la carica su un taxi e se la porta a casa, lì resterà finché vorrà e guai a chi ne parla. Siamo in preda ad una febbre, siamo rossi in viso, Diego tira fuori dal tascone della 127 il coltello che abbiamo comprato in Turchia, quindici centimetri di lama, mentre Mauro guida come un forsennato, De Ferrari, Castelletto, Via Bari... Dieci minuti, in genere ci va mezz'ora buona. La Voxson spara il giro slappato di Murder Of Love e ci triplica i battiti del cuore, sudiamo e fuori è due sotto zero...

"Kein Zurück für dich, there’s no way back, non si torna indietro.."
Mauro apre il portone, io apro la porta di casa ed entriamo in quattro... Casa, insomma, un bordello di bottiglie di vino vuote, roba sporca ovunque, una puzza da vomitare di cesso pubblico, lui non c'è, guardiamo ovunque, gli armadi aperti... quella merda è scappato, ragazzi, non c'è... Trovo il telefono sotto una torre di cartacce unte, chiamo Claudia a casa, sua madre ha messo a letto Diana, le ha dato un calmante... No, non l'abbiamo trovato, è scappato, che dicono gli sbirri? Come, domani? Ma che cazzo, una deve essere violentata in ore d'ufficio per sporgere denuncia? Sbatto la cornetta, cazzo, cazzo, cazzo... Altri tempi, non esisteva la panchina rossa né i centri antiviolenza e a me rimbombava in testa il ritmo metallico tedesco della Voxson e la faccia di Amerigo quando gliel'avrei detto, perché toccava a me, dirglielo: scuola, basket, musica, gradinata Nord, tutto avevamo fatto insieme, tranne la naja, ed ora lui era lì che si buttava da un aereo...
Durò due mesi, la sua permanenza, ospite di Claudia e gli sbirri non lo trovarono mai, il padre di Diana che, nel frattempo abortì, illegalmente, bassa macelleria, tanto da non essere più in grado di aver figli, mai, mai più, per poi sparire, all'improvviso, con duecentomila lire in tasca che le aveva dato la mia ragazza, non una traccia, solo qualche cartolina inviata a Claudia ed Amerigo, una da Lione, una da Malmoe, una da Gerusalemme, un'altra da Oporto, in cui ringraziava lei e la sua famiglia per l'ospitalità e salutava tutto il gruppazzo, sto bene, scriveva, non mi fermo per non pensare, dimenticatemi, vi voglio bene ma dimenticatemi.
Amerigo non la dimenticò, non l'ha mai dimenticata, l'ha cercata senza speranze, ha speso stipendi per andare dove erano state spedite le cartoline. Finché non se l'è portato via un aneurisma, tre anni dopo, a ventiquattro anni.
Quella bestia immonda che si diceva suo padre, invece, incontrò da vicino il frontale di una locomotiva, in Toscana, voleva, non voleva, chi se ne frega, si tolse per sempre di torno, un mesetto dopo la sparizione della figlia.
Il Piaggio Sì grigio col logo dei Bauhaus rimase incatenato al palo della luce sotto casa sua per ancora due anni, poi la municipale decise che andava bene così e lo portò via, un mattino di settembre.
Pioveva.

"Prendi questo mio bacio sulla fronte, ammetto che furono un sogno i miei giorni... Ma tutto ciò che vediamo o che sembriamo non è che un sogno dentro un sogno?"
Anno di grazia duemiladiciannove, primavera, Düsseldorf, sala convegni gremita, fanno tutti il mio lavoro, io sono tra i più anziani, che noia, perdio, ci sono colleghi da tutt'Europa, tutti allegri e ciarlieri, poi ci sono medici e personale di servizio, traduttori e steward. La sera cena e danze, stronzate, musica di merda suonata da tedeschi balordissimi in frac bianco, pettinati come James Last, gli inglesi sbronzissimi, io e mia moglie siamo stanchissimi.
Un buffetto, un accenno di pugno sulla spalla, mi giro, la vedo, sorride, attimo senza respiro, stop alla musica, larsen che mi fischia nelle orecchie, ristorante sospeso nel tempo e nello spazio. Guardo mia moglie, che era la mia ragazza, trent'anni prima, quella che Diana l'aveva ospitata, lei resta con la flute a mezz'aria, io... io... Diana? Sei tu?
Mia moglie si alza e rovescia bicchiere e sedia, si abbracciano e piangono, piangono e si guardano, sei tu, sei tu, sono io, sono io, come stai, e tu, i tuoi. Poi lei mi abbraccia, la sento ossuta e spigolosa come è sempre stata. Poi guarda mia moglie e le chiede: "Ma porca puttana, ma te lo sei sposato, 'sto besugo, siete sempre insieme..." E poi, poi che ci fai qui, sono io che organizzo 'ste cose, venite via, andiamo da me, sto fuori città, la macchina ce l'ho io, poi vi riporto io all'albergo. Guida sportiva, guida Cayenne nera, non parla, non parliamo, non ce n'è bisogno, ridiamo, piangiamo.

È tutta bionda, ora più signora, è sempre lei.

Sei sempre magrissima, mangio un cazzo, faccio climbing, scio e nuoto.
"Vi ho guardati per un quarto d'ora, alla cena, prima di decidere che sì, eravate voi..."
Bella casa, roba da ricchi, vi presento... Lisa. Vivono insieme da sempre, da quando questa milfona tedesca, allora giovane medico, trovò Diana che vagabondava vicino a Liegi, lungo la ferrovia, fermò l'auto e l'aiutò, zoppicava, distorsione di secondo grado. Poi l'amore, quello che le era mancato da una mamma anaffettiva e da un padre indegno, quello che Amerigo aveva provato per lei ma lei no, non ne era stata capace di amarlo. Quando lo nomina vede subito le nostre facce, capisce, chiede di dirle di tutti ma non di quello che lei chiama "lui", suo padre, non vuole saperlo né vivo né morto, non esiste, per lei. "Vent'anni di analisi, ma ce l'ho fatta, alla facciaccia sua."
Beviamo, dai.

"Un'altra speranza alimenta un altro sogno, oggi si realizza quanto il buon senso nega, su strade senza gioia camminiamo per file, un flusso calmo, ma costante..."
Fine della storia, tre del mattino, restate a dormire qui, no, abbiamo tutto in albergo, va bene, vi accompagno io... Ma prima, un momento, ho una cosa per voi... Apre una dispensa, fruga, rovescia, dice parolacce in tedesco, Lisa ride, ci dice che se non ci fosse lei questa casa sarebbe un casino fottuto, a fuckin' mess, ecco. Poi ricompare, la guardiamo ancora, stretta nei suoi jeans firmati e nella maglia di lurex grigio perla di gran griffe.

È tutta bionda, ora, più signora, è sempre lei...

Ha in mano una cosa che neppure ricordavamo esistesse, una cassetta, un'audiocassetta, consunta, originale, non sa neanche se si sente ancora, ci dice, tenetela, l'abbiamo consumata, in macchina ed alle feste.

La prendo, la guardo.

E' "A Secret Wish", cazzo, è "A Secret Wish".
Mi rimbomba in testa il basso slappato di quella sera, la batteria marziale di Murder Of Love, la Brücken che canta, dolce e decisa, tagliente e suadente. La corsa in auto, di notte, col coltello di Diego che luccicava, riflettendo la luce dei lampioni di Corso Firenze...
"Sapete..." Ci dice. "Una sera, saranno sei o sette anni fa, qui a Düsseldorf l'incontro per strada, Claudia Brücken, ve la ricordate, la nasona, la cantante dei Propaganda, le dico che la conosco, l'ammiravo da ragazza, beviamo una birra insieme, mi dà due biglietti ed un pass per un suo concerto, due sere dopo, ci andiamo, poi col pass nei camerini, ci presenta alla band, una mia amica italiana che non conoscevo, dice loro, ma ci conosciamo lo stesso da trent'anni... E mi firma la mia cassetta di A Secret Wish, lo vedete, qui, nel retro copertina. Ora la cassetta è vostra, tu sei mia sorella e tu mio fratello, anche se sei genoano..."


Cazzo, di botto la ricordo con la sciarpa del Doria al collo, di domenica, quei colori inguardabili, meglio non pensarci...


"Ora sapete dove abito, venite quando volete, anche senza preavviso, è casa vostra..."
Ora la cassetta è a casa nostra, in una scatola, mai ascoltata da noi, insieme alle foto dei nostri genitori, dei parenti, miei e di mia moglie e di quel gruppo di una ventina di scemi perdigiorno, anzi, perdinotte, mezzi dark e mezzi wave, con pettinature improponibili, in mezzo lei, sorride.
Sorride.
Sorride.

"Tutto quello che vediamo o che sembriamo non è che un sogno dentro un sogno?"

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