Python Lee Jackson non è un solista, bensì un gruppo rock blues australiano della prima ora, dalla storia particolare.
Si mettono insieme verso la metà degli anni sessanta, poi a fine decennio fanno il grande passo trasferendosi a Londra ossia il Centro del Mondo, la Mecca, la Terra Promessa per tutti i gruppi di quel tempo. Pescano un contratto per pubblicare un disco ma, in maniera abbastanza inaudita, il loro cantante compositore e organista si rifiuta di interpretare una ballata blues su cui puntano molto, intitolata “In a Broken Dream”, non sentendosene all’altezza.
Per risolvere l’inghippo contattano un cantante scozzese ancora poco conosciuto, tal Rod Stewart che al tempo aveva già sbarcato il lunario con gli Steampacket di Brian Auger prima e il Jeff Beck Group dopo, ma ancora non aveva consumato il fatidico incontro con i Faces. Lui accetta la proposta, pare in cambio di un… set di coprisedili nuovi per la sua sgangherata auto, e mette dunque la voce su “In a Broken Dream”. Già che c’è, gli fanno cantare altri due pezzi del loro repertorio, a nome “Doin’ Fine” e “The Blues”.
Esce il disco ad inizio 1970 e non se lo fila nessuno: il gruppo si sbanda, deluso. Stewart invece inizia a pubblicare dischi a suo nome ma soprattutto entra nei Faces, ovvero il surrogato più plausibile e convincente ai Rolling Stones. L’anno seguente segna il suo enorme successo personale col terzo album solista “Every Picture Tells a Story” ed allora, nel 1972, il lavoro dei Python Lee Jackson viene scaltramente ripubblicato. Beninteso, col nome della band stampato piccolo piccolo e il “featuring ROD STEWART” grande grande, accanto ad una foto on stage della sola, nuova rockstar.
Il singolo entra allora, con due anni di ritardo, in classifica, l’ellepì pure (in Australia, dove intanto la band è ritornata) e la storia finisce qui per loro, che non combineranno altro di sostanzioso.
“In a Broken Dream” è un gran pezzo, col miglior Rod Stewart possibile. Se la canta col cuore in mano il nostro, con quel timbro potente ed arrochito ad arte come lui solo sa mettere. C’è l’organo tanto fine sessanta, la chitarra psichedelica col distorsore esagerato, l’aria blues piegata ad una melodia convincente e memorabile.
Il resto dell’album non dice molto, compresi gli altri due contributi vocali di Stewart, i quali entrano da un orecchio ed escono dall’altro, così come succede a tutti gli altri episodi interpretati dal frontman titolare, tal Dave Bentley (futuro giornalista di buona carriera, giù in Australia). E’ il classico prodotto da tenere nella propria discoteca a ragione di un’unica canzone, peraltro suprema e cantata alla grande, evocativa di quel periodo cruciale di passaggio dagli anni sessanta ai settanta.
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