Con "Live Killers" (1979) la carriera dei Queen mette un punto definitivo a quella che era stata la strada artistica intrapresa dall'omonimo esordio fino alla fine dei '70. La svolta elettronica di "The Game" (1980) giunge a neanche due anni dal suono roccioso di "Jazz" (1978), al cui ascolto non può che emergere la voglia di vivere appieno il rock'n'roll style puntando più sul coinvolgimento dei brani e meno sull'artificiosità operistica, la stessa che aveva favorito la magniloquenza di una combinazione di suoni e stili praticamente unica. "Flash Gordon" (1980) celebra il fallimento dell'incursione dei Queen nel mondo delle colonne sonore e non da meno si dimostra il fiasco con la disco di "Hot Space" (1982), fatta eccezione per il celebre single "Underpressure" (con Bowie) che raggiungerà comunque il primo posto nella classifica inglese.

La reputazione live del gruppo non viene assolutamente scalfita dalle velleità artistiche dell'ultimo disco e tanto meno la voglia di assolvere agli impegni di Freddie Mercury (collaborazione con Giorgio Moroder per la riedizione del film "Metropolis" sel 1927), Brian May (disco insieme ad Eddie Van Halen per la blues jam session a nome Star Fleet Project), lasciando a Roger Taylor e John Deacon cogliere al balzo l'occasione del meritato riposo dopo due anni di duro lavoro.

Per il nuovo disco gli studi scelti sono i Record Plant di New York. L'atmosfera è quella giusta e che permetterà a Mercury & Co. di riemergere con le proprie forze, dedicandosi anima e corpo alla realizzazione di un disco che avrà il compito di mettere d'accordo (pur se l'intento sarà raggiunto solo in parte), la vecchia guardia dei propri sostenitori e (non da meno) una ricca audience fatta di nuovi proseliti in grado di entusiasmarsi al nuovo materiale e a quanto realizzato in precedenza.

La volontà di quella continua evoluzione non sempre espressa al meglio negli ultimi anni di carriera, viene pienamente manifestata con "Radio Ga Ga";scelto come singolo e posto in apertura del nuovo album, è figlio di quella vena creativa di carattere tecnologico che su "The Game" aveva mosso i primi passi, lasciando alla moderna scrittura di Taylor fuoriuscire con energia spianando la strada ad un incontenibile lirismo, in grado di raggiungere un pubblico numeroso per via anche del futuristico clip, ispirato dalle avveniristiche immagini del citato capolavoro di Fritz Lang. Guarda più avanti la sinteticità di "Machines (or Back to Humans)", un maldestro tentativo di avvalersi dell'elettronica che - seppur piacevole - non nasconde i suoi limiti. A riportare i Queen in pista ( e non solo per ballare ...), ci pensa la leggerezza di "I Want to Break Free" (supportato da un videoclip farsesco in cui i quattro musicisti esibiscono giocosamente il loro lato più femminile), che permette a May di spaziare liberamente con un brillante assolo, facendo eccellere oltremodo l'unico brano del disco concepito dal mite Deacon. E' l'incandescente fusione presente in "Tear It Up" a ricordarci la capacità di graffiare della band, un brano che fa il paio con la purezza hard rocker di "Hammer to Fall" che gioca la propria forza su di un riff poderoso ( ... torna a farsi sentire la self-made Red Special di Brian ...) quanto degli insuperabili cori, sulla cui importanza il geniale produttore Roy Thomas Baker aveva lavorato già dai primi dischi incisi con il gruppo. Per i brani da mettere sul disco i Queen scelgono tra una ventina di disponibili (altri colmeranno i dischi successivi anche delle carriere soliste di Freddie e Roger), quelli adatti al percorso musicale intrapreso negli eighties anche se inevitabilmente radio friendly. Discorso ben diverso per la profondità di " Keep Passing the Open Windows" in cui a passo di rock si viene esortati a non arrendersi al suicidio, consentendo a "Man on the Prowl" (evidente il richiamo a "Crazy Little Thing Called Love") trascinarci in un vortice r'n'r di altri tempi. Per l'atmosfera distesa (e zuccherosa) di "It's A Hard Life" - per la cui intro viene scomodata l'opera "Pagliacci" di Leoncavallo -, i contrappunti al piano di Mercury si impastano in maniera esemplare con le incursioni di May per poi celebrare entrambi con la malinconica e conclusiva "Is This the World We Created ...?" una perfetta simmetria musicale, esprimendosi altresì in un ineccepibile momento di purezza sonora, forse solo in apparenza fuori contesto con il resto dell'album.

A tutti gli effetti quello che può essere considerato l'undicesimo lavoro in studio della band britannica, dimostra di essere un prodotto musicalmente più che valido pur avendo un manipolo di brani che anche indulgendo in arrangiamenti artificiosi è in grado di colpire al primo ascolto. Un ellepì a cui i fedeli sudidti della Regina possono guardare con giustificato distacco, senza mai rinnegare l'indelebile fascino di un'epoca che fuoriesce comprensibilmente dai suoi solchi.

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