Dopo ben 5 anni di distanza dalla pubblicazione dell'ultimo lavoro, ecco qua i Radiohead che arrivano con un nuovo album. Posso certamente dire che inizialmente non mi è sembrato un granché, solo leggera e rilassante musica che passa liscia liscia attraverso le mie cuffie, mentre mi godo una fresca domenica mattina. Ma l'idea di questo disco è cresciuta in me e mi ha portato ad ascoltarlo più volte. Sono arrivato quindi a dedurre che tutto sommato è un disco maturo, come solo loro potevano fare. Dopo un inizio tranquillo, dettato dalle tracce "Burn The Witch" e "Daydreaming" che ci portano nel mondo dei sogni, arriva la fantastica e spettrale "Decks Dark" dove chitarra, batteria, basso, piano e la sottilissima voce di Yorke creano un sound contenuto da pareti di forte ma allo stesso tempo debole sensibilità ed emozionalità, il tutto arricchito da melodie moderne, innovative. Dopo l'ombra dettata dall'ultimo brano si aprono porte e finestre per far entrare la luce di "Desert Island Disk" che mette radici su un giro di accordi di chitarra acustica e una batteria frammentata di matrice jazz. Dopo le noiose "Ful Stop" e "Glass Eyes" arriva un'interessante prova dub che si manifesta nel brano "Identikit" e che ci conduce al finale con una chitarra alla "new wave", forse questo, il brano più incisivo e caratteristico. Altre tracce degne di nota sono "The Numbers" che rinuncia all'equilibrio tra elettronica e rock, instaurato in tutto il disco, sbilanciandosi verso il lato jazz del gruppo che si spoglia dal minimalismo che ricopre l'intero album; la pacata ed eccelsa "Present Tense" e il capolavoro della traccia finale "True Love Waits" capace di chiudere brillantemente questo freddo, anzi gelido disco, che sembra quasi ispirarsi alla disperazione del mitico "Blackstar".

Questo potrebbe anche annoiare, ma solo facendo un'analisi completa e sistematica si può comprendere a pieno l'album, probabilmente il più misterioso e sinistro mai pubblicato dal gruppo. È semplicemente una sequenza di agghiaccianti suoni, strumentali o vocali che riproducono una costante riflessione sull'esistenza che domina dalla prima all'ultima traccia, tutte con i loro pregi e difetti, che solo chi ascolta almeno una loro canzone può ignorare.

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