La ragazza era un po’ alticcia, ma perfettamente cosciente. Era giovane, ma non troppo e quel pudico, candido ed abbagliante vestitino non le si addiceva molto. Guardava con quel fare complice, capace di renderlo un caldo pezzo di argilla nelle sue piccole mani esperte; occhi peccaminosi e suadenti tra ciocche piacevolmente spettinate. Cominciò a toccarsi la vita stretta. Salire, con dita compromettenti ed invitanti, verso quei due proporzionati colli equidistanti e poi su, a sfiorare il collo elegante; il busto come un‘asta flessuosa al vento. Il vestito c’era ancora, ma per lui oramai non faceva troppa differenza. La bocca semi aperta da puro ebete: spaesato per aver perso gli ultimi due neuroni da qualche parte sotto la poltrona, nel polveroso tappeto. Andati per sempre. Palpebre inchiodate, e non muoversi per paura di rompere l’incantesimo. Lei si avvicinava facendo cadere con fare sexy, non serviva, le spalline e…

Ora, che qualche fesso e stinto nerd allupato lo dovrei pure avere catturato, vi parlo di “Trapped!“. Mi perdonerà Bartolo per l’inutile doppione, ma questa rece era incastrata da troppo nei meandri del pc e mi chiedeva a gran voce aria. 

Un paio di nerboruti adulti si avvicinano al ragazzo. Non è più un adolescente sbarbatello, ma è ancora sufficientemente verde per avere un po’ di timore nel vedere quelle losche figure ingrandirsi sempre più. Li scruta con soggezione e poi una sonora pacca sulla spalla ed una stretta di mano. Siamo nel 1992, una serie di album che quasi nessuno si era filato, e quei due tizi si chiamavano Accept e Running Wild. Riconducibile al genere power, quando queste non erano ancora 5 fottute lettere per le quali era necessario provare vergogna, “Trapped!“ palesa tutto il potenziale della band di Peavy Wagner. Ne è passato di tempo: aveva ancora una vagonata di capelli e non pareva avesse ingoiato un vitello che inutilmente cercava di uscire dalla panza. Per qualità una sorta di “Metal Heart”, “Death or Glory”, “Walls of Jericho” e “Land Of The Free”.

Non nego che Victor Smolski ci sappia davvero fare. Per quanto sul palco tenga spesso un atteggiamento un po’ svogliato e cagacazzi è ben lontano da quegli odiosi masturbatori delle sei corde tutto velocità e poco altro. Ma Manni Schmidt. Sì, lo rimpiango sempre quando ascolto i Rage e questo cd in particolare. Riff come quelli di “Difference” o arpeggi magnetici come quello di “Shame On You” non se ne trovano dappertutto, guardando distrattamente per terra. E’ un suono sporco, piacevolmente rugginoso e melodico, che si insinua nelle orecchie e non se ne esce tanto facilmente. Cazzo, Manni Schmidt. Con la racchetta da tennis da brufoloso bamboccio lo imitavo e tra lui e Wolf Hoffmann, preferivo ancora il suo tocco.

Sia ben chiaro si picchia in questo cd. Servono orecchie un po’ allenate e Chris Efthimiadis dietro le pelli ha il suo bel da fare. Ciò nonostante è lungi dal poter essere definito un lavoro estremo con mera doppia cassa, riff serrati, rutti nel microfono ecc. Ci sono pezzi tirati, e qui potrei snocciolarvi diversi nomi inutili, ma con un fare melodico, suadente, affabile, senza necessitare di cori al miele e tastiere. E’ quel giusto compromesso tra heavy metal e melodia con cambi di tempo e break che incuriosiscono chi ascolta. I Rage sapevano proprio spezzare la colonna vertebrale di una canzone e riprenderne il filo prima dei titoli di coda. E qui, nel verde di una vena compositiva in crescendo, ogni brano si differenzia e nasconde qualcosa: unico collante quel vocione per nulla accomodante e piacente di Peavy. Un dito indice che, ipnotico e con fare sinistro, si torce chiudendosi e aprendosi.

Molti cosiddetti capolavori degli anni ‘80 riconducibili al genere heavy metal più classico “Trapped!” li guarda negli occhi. Assieme a rinomati album da 5 stelle obese se ne va a bere qualcosa al bar ogni sabato sera. L’hanno visto la settimana scorsa ad Amburgo, vicino al porto, con quel cazzone di “The Trooper” e quel casinaro di “Reign In Blood” che in fin dei conti è buono come il pane. Prima o poi il successo arriverà, gli dicevano, mentre completamente ubriachi gli scrollavano di dosso la polvere ridendo come pazzi. Lui sorride acido e butta giù un altro bicchiere.

Vi vedo pigiare i tasti e pensare, mentre la frase prende una forma più o meno elegante, qualcosa vicino ad un “decisamente troppo invasata e poco obiettiva”. E in questo modo, magari senza nemmeno conoscerli, questi 50 minuti rimarranno ancora una volta solo per i soliti sparuti stronzi.

E forse non è nemmeno un male, a pensarci bene.

Carico i commenti...  con calma