Immaginate di essere sulla prua di una nave, al largo del Mare del Nord: il vento soffia gelido e impetuoso e le onde infuriano agitando l'acqua che si fonde con il cielo color grigio ferro. Queste sono le sensazioni che si provano ascoltando la titletrack, nonché opener del quarto album dei Rammstein, più che una band una vera e propria forza della natura, capaci di dar vita a canzoni dalla struttura molto semplice eppure potenti, comunicative e mai banali a livello di contenuti. In "Reise, Reise" i Nostri aggiungono al loro affresco sonoro pennellate più cupe, più gotiche, con l'uso mirato e oculato di elementi orchestrali che si sposano con un heavy-industrial (qui di tanz-metall ce n'è davvero poco) dedito a una vera e propria elevazione spirituale, resa alla perfezione dallo Sciamano Till Lindemann, la cui voce bella e profonda diventa, a seconda delle occasioni, ora quasi parlata, ora più dura, anthemica o dolce e tenorile.

Tra i pezzi più classicamente rammsteiniani possiamo trovare "Mein Teil", dall'incedere possente e perverso che esplode nell'incendiario ritornello, in cui i Nostri confermato la loro particolare attitudine nel trattare tematiche shock (nella fattispecie il cannibalismo), condendo il tutto con uno dei video più belli e geniali della storia del metal, il mio preferito in assoluto. Altro singolo da manuale è "Keine Lust", classica performance industrial con chitarre a rullo compressore e ritornello trionfale, che sfocia in un assolo congiunto della coppia Lorenz-Kruspe, oppure "Stein Um Stein", onirica e decadente, quasi psichedelica, in cui nulla fa presagire la pazzesca esplosione del ritornello, che si stempera di nuovo nella malinconia, con un Till che rende alla perfezione tutte queste sensazioni.

Altri highlights dell'album sono l'ipnotica "Dalai Lama", magistrale nell'uso del pianoforte nello spettrale ritornello corale, "Amerika" stupendo anti-inno molto orecchiabile, da cantare a squarciagola, con un assolo di tastiere molto spaziale e un coro di bambini sovrainciso nel finale, o per par condico "Moskau", unico pezzo tanz-metall del disco, in duetto con una voce femminile infantile da Spice Girl e contaminato da influenze sabbathiane. Autentica perla rara la stupenda "Morgenstein", introdotta da un coro alla Cradle Of Filth, il punto più alto dell'elevazione sprituale e dell'appeal gotico di questo disco, memorabile nell'atmosfera claustofobica che si apre in tutta la sua magnificenza nel horus, epico e misterioso in cui Till Lindemann dimostra di avere capacità liriche assolutamente non inferiori a Eric Adams o Fabio Lione.

Sperimentazione pura è invece "Los", con una chitarra acustica quasi ossessiva e tastiere molto discrete. Un esperimento minimal che non esplode mai ma risulta piacevole e molto ipnotico. Il disco si chiude con due ballate: la prima, "Ohne Dich", e molto sontuosa e sinfonica, che diventa una dolce marcia da accendini sotto il palco; ha quasi sicuramente ispirato i Manowar per "Blood Brothers", mentre la seconda, "Amour", e del tutto inusuale per i Rammstein, molto bella e delicata con i suoi arpeggi appena percettibili e la sue tastiere leggere come un soffio di vento, che aumentano i decibel solo nel finale. Il meglio lo da sempre Till che interpreta la canzone con una tonalità sussurrata e molto sensuale.

Tirando le somme, anche stavolta (e con il successivo Rosenrot), i Rammstein hanno confermato in pieno il loro istinto killer e il loro grandissimo talento, acquisendo una nuova grazia selvaggia che li rende ancora più unici nel loro genere. Comprate i loro dischi, ne vale davvero la pena.

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