"The Dirt Of Luck" ('95), primo full lenght per la band di Boston dopo l'EP d'esordio "Pirate Prude" dell'anno precedente: manciata di cantilene inquiete, messe a sedere su un pavimento di ritmiche lente, ma dure e appuntite come sassi. Dodici gemme fatte di pacatezze indie pop, melodie easy listening, asperità ed abrasioni di chitarre e basso al limiti del noise.
Dell'esordio discografico vengono abbandonate la pazzia, la schizofrenia in fase di registrazione, la destrutturazione della forma canzone. Rimangono il gusto per l'accostamento "azzardato" di suoni e strumenti, le sovraincisioni, le ritmiche e le distorsioni rumorose, aspre e dure.
Capita così di imbattersi in melodie infantili e motivetti di tastiere, poco più delle nenie di un carillon, sostenute da linee di chitarre semplici, inciampate sul pedale della distorsione ("Silver Angel"), in filastrocche che fanno da preludio ad aperture e crepitii improvvisi di chitarre a là Breeders ("Pat's Trick"). Esplosioni di feedback e risuonare tribale di timpani che stupiscono e sorprendono nel loro evocare i migliori My Bloody Valentine, prima di contorcersi e avvolgersi su una chitarra-sirena per diventare ipnotiche, allucinanti, quasi psichedeliche ("Baby's Going Underground"). E, ancora, melodie sbilenche, soffocate sul nascere da quello che sembra essere l'incidere inesorabile di una sveglia, il ticchettio irritante di un orologio ("Comet #9"), un intermezzo di pianoforte da film dell'orrore ("Skeleton") e un synth pop-orientaleggiante, uscito fuori da un qualche girotondo nel bel mezzo di una sagra grunge-popolare ("Superball").
Quando ormai credi di averci fatto l'abitudine a tutti quegli spigoli, a quell'attorcigliarsi armonioso di suoni e rumori, a quella sensazione quasi fisica di "attrito" che promana dal basso di Ash Bowie ("Medusa"), ecco che ti ritrovi fra le orecchie una gemma dimenticata nel doppio fondo di un qualche scrigno dei migliori Pavement, fatta di arpeggi semplici e delicate slide guitar che si accontentano di rimanere in disparte ("Honeycomb").
Ovunque, adagiata sul rumore, a danzare sui jingles, a suo agio fra i frastuoni, c'è una voce (Mary Timony) che sembra voler cullare le distorsioni: dolce ed inquieta, spesso poco più di una nenia, mai veramente aggressiva, come se Kim Deal, Kim Gordon e J. Mascis (? ) si ritrovassero a doversi dividere le stesse corde vocali, la stessa malinconia.
Il risultato finale assomiglia un po' ad un pastrocchio di generi, suoni e colori: indie, pop, noise, filastrocche e baccano. Un continuo sovrapporsi di linee melodiche e non, ma con la capacità e la forza di creare, pur nella sua eterogeneità, un esempio strano di armonia, un'atmosfera sognante e dai contorni sfumati, come una ballerina che danzi in punta di piedi su cocci di vetro, in una sorta di equilibrio malfermo di sperimentalismo e orecchiabilità pop, asperità e dolcezze sonore.
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