"Everybody’s youth is a dream, a form of chemical madness”, scriveva il buon Francis Scott Fitzgerald nelle sue celebri “Tales of the Jazz Age”. A molti anni e ancor più chilometri di distanza, un manipolo di ragazzi non più imberbi ma non ancora uomini fatti e finiti, avrebbe traslato suddetto scompenso chimico in qualcosa che tanto nelle intenzioni quanto nei fatti, voleva essere una rivoluzione. Anche loro come il noto scrittore americano, avrebbero trovato profonda ispirazione nel jazz. Non più quello swingato e ballabile delle big band, bensì quello obliquo e straniante di Ornette Coleman. Non ci sarebbe nulla di anomalo, non fosse che stiamo parlando di una band che fino a quel momento, aveva suonato puro e semplice hardcore punk.

I conti con quella che almeno nel campo degli ideali e dei luoghi comuni, dovrebbe essere l’età più spensierata e godibile della vita, si fanno sempre quando non ne rimane che il ricordo. “The Shape of Punk to Come”, a dispetto degli inni insurrezionalisti che vi venivano gridati a pieni polmoni, non cambiò il mondo. In compenso contribuì a cambiare le orecchie di molti di quelli che in quel lontano 1998, ma chiaramente anche negli anni successivi, raccolsero la sfida di un disco così difficile da inquadrare e assimilare. Fare di una forma espressiva spesso considerata poco più che lo sfogo di un prurito adolescenziale, “A Chimerical Bombination in 12 Bursts” (come da descrizione riportata in copertina), non era decisamente impresa alla portata di tutti. Ma porca miseria se i Refused ci riuscirono alla grande. Il resto fu un disastroso tour negli Stati Uniti che portò il gruppo allo scioglimento e all’avvio di una serie di nuovi progetti, i quali non riuscirono nemmeno lontanamente a scuotere il proprio ambiente di riferimento come quell’irripetibile exploit di talento e creatività. Fino al 2012.

Le reunion portano spesso con sé il sospetto del bisogno di far cassa e/o del rifiuto di arrendersi a un epilogo naturale. Chiunque abbia avuto modo di rivedere il combo svedese all’opera sulle assi di un palco dopo quasi tre lustri di iato però, difficilmente potrà confutare come il passaggio dagli “enti” agli “anta”, non abbia minimamente scalfito l’incontenibile verve di quel gran frontman che è Dennis Lyxzén. Addirittura il batterista David Sandström è apparso dotato di rinnovate energie e consapevolezza dei propri mezzi. Tornare in studio per riprendere il discorso da dove lo si era interrotto dunque, sembrava la naturale prosecuzione. Non deve averla pensata così Jon Brännström, che fece tanti cari saluti a tutti e proseguì per la sua strada. Coi primi caldi estivi del 2015 arrivò così anche “Freedom”.

Nel dare forma a quello che ad oggi è il loro ultimo lavoro, il gruppo ha optato (a mio avviso saggiamente) per dei brani più immediati rispetto a quelli del suo illustre predecessore. Non per questo tutte le sfumature possono essere colte al primo ascolto, complice anche una produzione ben congegnata, oltre che fresca e al passo coi tempi, a firma Nick Launay (andate un po’ a vedere su quanti e quali dischi ha messo le mani) e del conterraneo Shellback (grande professionista ma i nomi che produce di solito, ehm…). Si punta subito a frantumare le ossa col crescendo deflagrante di “Elektra”, urla e chitarre brillanti sorrette da una coinvolgente architettura ritmica. Quelle che sono probabilmente le due novità più significative rispetto al precedente modo d’operare, diventano evidenti con “Old Friends/New War”: un ricorso sistematico alle pressoché infinite possibilità di manipolazione sonora offerte dall’elettronica e l’introduzione di linee melodiche di facile presa. Scelte che manco a dirlo, han fatto storcere parecchi nasi.

Anche quando si naviga in acque ben conosciute dagli estimatori di vecchia data, c’è sempre almeno un elemento di rottura col passato. La quasi funkeggiante “War on the Palaces” e l’inno anticolonialista “Françafrique”, su cui fa capolino addirittura un coro di bambini, si avvalgono di un arrangiamento a base di fiati. “Dawkins Christ” punta sul medesimo impatto dei vecchi cavalli di battaglia della band, rinnovandolo però con un interessante gioco di voci. “Useless European”, il cui messaggio è dannatamente attuale, parte come una ballatona sommessa per poi risolversi nella consueta furia. Le liriche come sempre ricoprono un ruolo centrale, passando però dai toni riottosi e utopistici del primo periodo, a una riflessione più amara e consapevole. Quantomeno i 17 anni dalla precedente uscita, non sembrano passati invano.

Da che ho memoria, raramente la critica musicale si è mai dimostrata tanto miope nel compiacersi della propria prosopopea, infierendo sul gruppo in maniera spesso gratuita e meschina. Ora, che un disco piaccia o meno è ovviamente una questione soggettiva. Ma come si può giustificare tutti si siano impuntati sulla pronuncia sbagliata di “Françafrique” , tacendo completamente che il ricorrente “Exterminate all the brutes!” attorno a cui ruota il pezzo, porti con sé tutta una serie di riferimenti che vanno da Joseph Conrad a Iggy Pop, passando per “Apocalypse Now”, se non col fatto di essere delle clamorose teste di cazzo? È proprio il caso di dirlo: scusate il francesismo. Qualcuno si è spinto addirittura fino all’attacco personale, accusando Lyxzén e soci d’insincerità e fraintendendo completamente il “Nothing is changed!” di “Elektra”, il cui testo non parla certamente della band. Altri bollarono il ritorno come qualcosa di assolutamente non necessario. Beh mi spiace per questi signori, ma a modo suo ogni disco in circolazione non lo è. Si ascolta forse musica su prescrizione medica? Fa doppiamente ridere detto da qualcuno che è stato pagato per scrivere simili scempiaggini, e a cui quindi l’esistenza di “Freedom” è servita eccome.

Metterla in termini di maturazione potrebbe essere improprio, in quanto “The Shape of Punk to Come” era già un’opera incredibilmente matura e compiuta, seppur animata da quel pizzico d’incoscienza che in un certo senso, ne costituiva uno dei pregi maggiori. A tutti gli effetti si tratta di un nuovo corso per la band di Umeå, ritrovatasi a osservare l’assetto di un mondo che dai tempi del loro scioglimento, ha subìto cambiamenti radicali e profondi. In fondo con “Refused Are Fucking Dead”, qualcosa avranno pur voluto dire, no?

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