È con "Out of Time" che i REM conquistarono il mondo, e lo fecero in modo singolare: oltre dieci milioni di copie vendute in pochi mesi senza nessun tour di supporto - al di là di qualche show-case in giro per il mondo. "Out of Time" è la prova provata che un grande singolo può fare diventare ricchi con la musica.

Un album senza infamia e senza lode (benché capolavoro radiofonico), ma di sicuro non un disco "fuori dal tempo". In "Out of Time" di fuori dal tempo c'è solo qualche canzone: "Losing My Religion" (capolavoro ritmico al mandolino, con un testo nichilista che rifiuta le certezze universali che valgono per tutti: "La vita è più grande di te e tu non sei me"); "Country Feedback" (buon pezzo rock alla Neil Young, che la suonò insieme alla band in concerto); "Half a World Away" (mandolino, clavicembalo classico e uno Stipe da lasciare senza fiato); "Low" (eccellente lento, anche se tirato troppo per le lunghe).

"Texarkana" e "Near Wild Heaven" potrebbero essere meglio di quel che sono se non fossero cantate da Mills, genio dei controcanti, ma incapace di timbrare e quindi incapace di arrivare all'ascoltatore come riusciva a fare, praticamente senza cantare, il timbro nasale di Stipe.

Il resto è un insieme di mediocrità/fanfaronate a cui i REM ci hanno abituati dal 1986. Ma questo non ci devo scandalizzare. Peter Buck ha definito la musica dei REM "parte verità, parte bugie, parte cuore e parte spazzatura" (proprio come il titolo del "Best 1982-2011"). "Out of Time" è proprio questo - come d'altronde quasi tutti i dischi dei REM (ad eccezione di "Automatic for the People" e, ad un livello minore, "Murmur").

Sia come sia, con "Out of Time", i quattro di Athens finalmente raggiunsero il successo mondiale. Risolti i loro problemi economici, tornarono ad essere se stessi, come ai tempi di "Fables...". Con questa ritrovata libertà interiore, tireranno fuori il loro capolavoro.

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