Uno strano nome
Rashaan Roland Kirk suonava anche tre strumenti contemporaneamente: due sax, l’uno a destra e l’altro a sinistra. E un flauto, col naso. Trattato dalla critica jazz (che naturalmente, con molti anni di ritardo, dovette ricredersi) come un personaggio pittoresco, un simpatico buffone, continuò imperterrito il suo percorso anomalo e curioso, che lo portò, tra le altre cose, dentro un disco di
Mingus
Riversando nel suo shaker parti diverse di tradizione, suoni registrati, folk, jazz e humor, ci servì cocktails in forma di concerti e dischi dai sapori pirotecnici. Uno dei più rinomati, inciso nel 1965, si chiamava Rip Rig & Panic.

Furore.
Eravamo troppo giovani per non sentirla come una sostanza in circolo nel nostro stesso organismo, pulsante e decisiva. Senza vie di mezzo, senza misurate distanze critiche: densa e diffusa, corrosa e corrosiva, atroce e sensuale in un modo definitivo, la musica non diceva del mondo. Era il mondo.
Nel 1979, sulla scena brulicante di bands che tentavano personali percorsi dopo il piccolo big bang del punk, "Y", del Pop Group, piombò come una mazzata.
La carne aveva allestito il proprio echeggiante rituale, il proprio suono. Ed era il suono del furore.
Durò il tempo di un incubo, dilatato e compresso. Ma quel disco incise un segno urticante e indelebile. Poco dopo, dalla superficie martoriata si levavano i fumi di resti bruciati, ancora crepitanti ma irrimediabilmente consumati. Già si udivano altre sirene, su un territorio irrimediabilmente mutato. Un altro formidabile documento sonoro, “For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?” e poi lo scioglimento.
Il furore però non svanì, risolvendosi in un’irrequietezza costante, che chiedeva uno spazio meno claustrofobico. Restò sotteso a quella irrequietezza, capace anche di sorridere, mettendo in scena un nuovo, inaudito, carnevale itinerante, con quel che trovava lungo la sua strada.
Ed era una strada straripante di suggestioni, affollata di frammenti e di schegge. Ottimo ricettacolo per dei funamboli assetati di suoni.

Nel nome di … God
Il primo disco del gruppo che a Bristol prese vita dopo lo scioglimento del Pop Group (scegliendo come nome il titolo del disco di Rashaan Roland Kirk, che era scomparso nel ‘77) rivelò qualcosa più di un’affinità con l’attitudine del jazzista.
I Rip Rig + Panic erano: Sean Oliver, basso, Mark Springer, tastiere, Gareth Sager sax e chitarre, Bruce Smith, batteria. E la sua mogliettina sedicenne, quella Nenè Cherry, che prestò la propria voce deliziosamente acerba e sfrontata.
Giovani ma tecnicamente preparati a tutto, eclettici e completamente immersi nel magma che loro stessi generavano: nelle mani di questo manipolo la musica fluiva selvatica e materica in ogni direzione, alimentata da uno spirito che mi conquistò immediatamente.
Doppio ep, un vinile con le quattro facce di quattro diversi colori, “God” spalancava l’esuberante spettro delle possibili deraglianti declinazioni di un verbo altrettanto policromo.
Un verbo che vedeva la luce nella Babele di quegli anni, innalzando un vortice sonoro nel nome di un Dio meticcio, nervoso e spiazzante, ululante e giocoso.

Nessuna descrizione, sorry, per brani che più che esaurire un discorso compiuto aprivano spiragli innervati di pianistiche particelle jazz, funk, improvvisazione, tribalismi assortiti, frenesie di chitarre arroventate e dolcezze improvvise.
Forse risulterà meno ostico, ad un primo approccio, il successivo “I Am Cold” (’82) che vedeva ospite anche Don Cherry.
Ma la meraviglia di questo disco d’esordio sopravvive ancora, mentre scrivendo lo riascolto (in questo momento, alla traccia 11 “The Blue Blue Third”, le mani di Mark Sprinter distillano note cristalline da un pianoforte emerso dopo la brusca chiusa della giungla urbana materializzata in “Those Eskimo Women Speak Frankly”)

Shame on you, music biz!

Troverete il nome di questo vulcanico collettivo citato da miriadi di musicisti, critici, appassionati.
Scoprirete, se già non vi è accaduto, echi e riflessi della loro breve avventura nella produzione di moltissimi altri gruppi.
Ma se volete acquistare i loro dischi dovete rivolgervi all’etichetta giapponese Progressive Line, che li ha ristampati recentemente, sottraendoli al vergognoso oblio al quale li aveva sinora condannati il mercato.
O potrete ricorrere alle svariate “soluzioni” che conoscete certo meglio di me.
Io conservo il solito vinile rosicchiato, che oggi ha un piccolo gemello metallico.
Dal quale ho estratto una raffica di samples, che spero vi “colpiscano”

In this God we trust.


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