"Come un canto subacqueo intonato da delfini sotto la superficie degli oceani." 

E la recensione potrebbe finire qui, con le parole che lo stesso autore impiega per descrivere il suo ultimo, bellissimo, lavoro.

Ma per il sottoscritto recensire un artista come Robert Wyatt, oltre che un onore ed un piacere, diviene un indispensabile esercizio di purificazione, una terapia di igiene mentale.

Sempre più estraneo alla cultura occidentale, al caos, alle contraddizioni ed alle assurdità di un mondo complesso in cui evidentemente non si riconosce più, Robert Wyatt preferisce guardare oltre, crogiolarsi nell'affetto di amici e parenti, occuparsi di diritti umani, e di tanto in tanto sfornare qualche buon lavoro.

Nell'intimità della sua casa, amorevolmente supportato dalla compagna Alfie e dalla consueta schiera di amici (Brian Eno, Phil Manzanera, Paul Weller, David Sinclair, Annie Whitehead i nomi di maggiore spicco), Wyatt mette insieme artisti dalla provenienze più disparate e compie la sua dotta esplorazione del mondo.
Esplorazione del suo mondo interiore e del mondo che sta fuori: una dolce e al contempo sofferta discesa negli abissi della coscienza, nella profondità degli oceani, per poi riemergere, lasciarsi candidamente trasportare delle onde, dal fluttuare armonico di una massa enorme, infinita, inerte ed al contempo in perenne movimento.

"Comicopera" ci consegna una visione del mondo intelligente, matura, coraggiosa, ma non priva di lacerazioni: fra il recupero di materiale rimasto da tempo in cantina e audaci riletture, "Comicopera" è la consueta lezione di intelligenza ed eleganza che oramai da anni Wyatt c'impartisce.

 "'Cause I'm never going to change a thing about you,
(I'll) try to love you"

 Ma anche una lezione di umanità, potremmo aggiungere, perché "Comicopera" è un sofferto e faticoso processo di accettazione del Diverso, uno sforzo intellettuale, emotivo ed empatico volto non solo alla comprensione e al rispetto dell'altro, ma anche alla manifestazione di vero e sincero amore per il prossimo: in un mondo frammentato, lacerato, pregno di ostilità, diffidenze e conflitti, Wyatt lancia il suo messaggio, una lezione di comunicazione e compenetrazione interculturale.

Proprio come la sua musica: un caleidoscopio di emozioni e sonorità dissimili, una ricca, sofferta e palpitante materia emotiva percorsa da un'avanguardia sottocutanea che la anima senza minare la spontaneità. Ed è proprio questo miracoloso incontro fra ragione e sentimento, questa perfetta simbiosi fra intelligenza e sostrato emozionale, questa umanità che fa da collante alle esperienze più disparate, a mio parere, a rendere unica ed inimitabile la musica di Wyatt, ieri come oggi e probabilmente per sempre.

 A maggior ragione perché in questi giorni si parla molto di Radiohead, è importante secondo me riconoscere i meriti e il valore di un artista che probabilmente è il padre e l'alfiere più sincero di un "rock" intimo, emozionale ed emozionante, che non teme di contaminarsi con il jazz, l'avanguardia, l'elettronica e la musica etnica, ma senza mai scadere nella altezzosità intellettualistica e nella sterile autoreferenzialità.

L'album si divide in tre atti (e proprio in questa tripartizione va rinvenuta probabilmente la scelta di un titolo così curioso): in realtà "Comicopera" non è la creatura più sistematica di Wyatt, e la suddivisione in tre momenti sembra piuttosto volta a conferire maggiore organicità a brani fra loro estremamente eterogenei, spesso solamente abbozzati, che fluttuano nella mente come appunti sparsi e poi raccolti.

Sofferte ed al contempo scanzonate pagine di un diario fatto a pezzi.

 I

lost in noise

 "In between, lost in noise.
somewhere, somewhere.

In between, got no choise
but to be here,
somewhere, somewhere."

Un Wyatt che più tipico non si può è l'artefice di questa prima sezione, a metà strada fra gli umori intimi e la distaccata malinconia di un capolavoro come "Rock Bottom" e le tentazioni jazz sperimentate nel recente "Cuckooland": cinque ballate pianistiche, riscaldate dal lieve tocco dei fiati e dal canto surreale di Wyatt.
Le percussioni, curate con commovente caparbietà dall'artista stesso, così elementari eppure così piene di sentimento, sono un vero atto di amore verso il proprio strumento prediletto.

In realtà tutta l'arte di Wyatt è pura emozione: note che scorrono con semplicità, ma mai banali, sempre rilucenti di un talento unico ed inconfondibile, oblique, paradossali, a tratti geniali, addolcite dalla delicatezza tipica dell'artista nel maneggiare la complessità della propria sostanza emotiva.

Queste cinque tracce, a mio parere, costituiscono la porzione più bella e struggente dell'opera: il brano di apertura, una sofferta rivisitazione di "Stay Tuned" di Anja Garbarek, non solo ci consegna un Wyatt nella veste di magistrale interprete, ma può figurare tranquillamente fra i brani più belli ed intensi dell'intera carriera dell'ex Soft Machine.

 II

the here and the now

 "And I don't believe in willpower;
self-expression's such a fraud.
I mean how can I express myself
when there's no self to express."

 Il cantautorato folk di "A Beautiful Peace", il blues scanzonato di "Be Serious", gli esperimenti rumoristici di "Out of the Blue" sono senz'altro gli episodi più sorprendenti, ma purtroppo non sempre convincenti, del secondo atto dell'opera (altri sei brevi pezzi), che io ritengo il più debole dei tre. Fase in cui Robert Wyatt pare abbia voglia di divertirsi ed intraprendere vie inedite, un Wyatt vivace, autoironico, provocatorio, ma anche polemico ed amaro. Amaro di quell'amarezza che è data dalla ragione e dal pensiero critico: l'impossibilità, nonostante tutto, di lasciarsi andare, la malinconia che viene dalla conoscenza, l'impotenza e la coscienza dei propri limiti ("And it's a beautiful day, for walking away. It's a beautiful day, but not here" recita il testo di "A Beautiful Peace").

 III

 away with the fairies

 "Dimora della carne, riserva di calore,
sapore e familiare odore...
E' cavità di donna che crea il mondo,
veglia sul tempo lo protegge...
Contiene membro d'uomo che s'alza e spinge,
insoddisfatto poi distrugge...

 Il nostro mondo adesso debole e vecchio,
puzza di sangue versato infetto..."

Il terzo atto di "Comicopera" è il volo spericolato di un Wyatt che vorrebbe librarsi nel cielo ed abbracciare il mondo intero.
Non è certo priva di sorprese questa ultima porzione dell'album, composta da altri cinque pezzi, e che suona come una sfavillante protesta poliglotta, dove la lingua inglese viene messa rigorosamente da parte in quanto rappresentatrice del Pensiero Unico, dello strapotere delle Potenze Mondiali.

E allora sarà un vero piacere imbattersi nella rilettura di "Del Mondo" dei nostrani CSI, cantata in un discreto italiano dallo stesso Wyatt, da lui trasformata in un lento sbilenco per sole voce e tastiere. O le sconclusionate evoluzioni al vibraphone ad opera di Orphy Robinson in "Pastafari", esperimento etnico "free" che destabilizza un poco le atmosfere sornione dell'album, andando così ad assecondare le pulsioni più dadaiste di Wyatt.

E come non citare le festose ambientazioni da spiaggia della celebre "Hasta Siempre Comandante" ("De tu querida presencia, Comandante Che Guevara!"), classicissimo della tradizione cubana, qui affossato dal falsetto patafisico di Wyatt e dagli improvvisi squarci free-jazz che irrompono nel finale. Un pezzo che costituisce il degno epilogo di un iter che finisce con lo sfociare nella speranza, nell'ideale astratto (non nel culto dell'eroe!) di un'alternativa possibile.

Un'alternativa da ricercare necessariamente al di fuori del mondo anglosassone.

 Ma il brano più emozionante scaturisce a mio parere dalla poesia degli struggenti versi di Garcia Lorca: "Cancion de Julieta" è un'allucinazione onirica, un assolato e sfocato viaggio alla deriva nei mari della coscienza. Tastiere stranianti, archi che stridono e fiati che si contorcono, Wyatt che declama i versi in spagnolo come perso fra il placido movimento delle onde, "come un canto subacqueo intonato da delfini sotto la superficie degli oceani."

Hasta Siempre, Robert!

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