Parafrasando quanto diceva un famoso scrittore a proposito dei libri, le recensioni impossibili da scrivere sono proprio quelle per cui vale la pena di farlo. Essendo incappato in una di queste, allora, cerco di sottrarmi, di trovare giustificazioni, di dire a me stesso che è un tentativo che sarebbe meglio lasciare ad altri. Niente da fare. L'album comincia a perseguitarmi. Inizio a credere assurdamente di essere responsabile del fatto che tanti, che potrebbero apprezzare ed amare questo disco, continuino invece ad ignorarlo. Così, spinto ancora una volta da questo patologico senso di colpa, ho deciso di provare a parlare di "Old Rotthenat" di Robert Wyatt. Chi non conosce ancora Wyatt, può stare tranquillo. Qui non troverà molto materiale per colmare le sue lacune, né abborracciati bignamini di sicura fonte googleniana. Credo che l'approccio migliore all'album per i neofiti possa essere quello privo di appesantimenti storicistici; anche perché sono sicuro che, com'è capitato al sottoscritto circa vent'anni fa, l'essenziale bellezza di esso li condurrà inevitabilmente agli altri suoi capolavori solisti, per arrivare poi, in un percorso a ritroso, alle "muse inquietanti" dei Soft Machine.

"Old Rottenhat" è l'unico album ufficiale degli anni '80 di Wyatt e in esso sono riversati tutto il malessere, la rabbia, misti ad una robusta dose d'ironia, verso quel periodo, nonché la sua voglia di prendere di petto un decennio, erano i tempi della Thatcher e di Reagan, che al nostro non andava affatto giù. Un lavoro, quindi, profondamente politico, militante, dedicato a Michael Bettany, che trascorrerà ben ventitré anni in prigione perché accusato di essere una spia dei Russi.
I temi toccati da molti dei dieci brani sono quelli "caldi" dell'epoca, alcuni comprensibili solo se inquadrati nella logica dei "blocchi" contrapposti, come in "Est Timor", o dell'aspro scontro sociale e delle dure lotte sindacali britanniche di quegli anni, come in "The Age of Self " ("They say the working class is dead / we're all consumers now / They say that we have moved ahead / we're all just people now..."). Tutto l'album è pervaso da un socialismo primitivo, nel senso migliore del termine, e battagliero che si traduce in liriche mai predicatorie o da indottrinamento, ma sempre pungenti e di denuncia: esemplare da questo punto di vista "The United States of Amnesia".
La qualità migliore di "Old Rottenhat", però, non è nella sua pur solida trama politica, parzialmente esposta ad un'inevitabile caducità, quanto nelle composizioni musicali eteree ed essenziali, ma dotate di un calore raro e avvolgente. Robert modula la voce da par suo, con virtuosismi che seguono l'ispirazione, finendo per irretirti, per incantarti come se fossi in trance. Pochi strumenti, un organo, un piano, pochissima elettronica, delle percussioni ridotte all'osso, un'atmosfera "casalinga";  ma  bastano pochi secondi per ritrovarsi con "Alliance" in un universo che può fare a meno non solo della teorizzata "alleanza" tra operai e borghesia, ma di molto altro. Un "nuovo mondo" dove si fluttua, abitato da presenze impalpabili, che tu raggiungi felice, mentre Wyatt rinfaccia agli Amerikani la loro dissennata politica estera, come nella citata "The United...". 
Con "Speechless", l'unico brano prettamente strumentale, sei finalmente libero da zavorre e puoi librarti senza problemi. Ma l'apparente contrasto ritorna con "The Age of Self", l'episodio più ritmato e diretto, in cui l'appassionato e condivisibile discorso politico passa in secondo piano rispetto alla composizione musicale, un elettro-pop stratosferico di impressionante modernità. Così com'è facile dimenticarsi del pacifismo ispiratore e abbandonarsi all'incedere ipnotico di "Gharbzadegi", solo un piano ed una batteria ad accompagnare le evoluzioni vocali del nostro, che suona come un brano di "Pet Sound" se Brian Wilson avesse abbracciato la religione professata a Canterbury.

Tutti i brani comunque, a mio parere, chi più chi meno, testimoniano un'evidente eterogenesi dei fini: quello che Wyatt pensa e compone come il suo album più duro e politico, con una struttura musicale volutamente dimessa, finisce per essere, suo malgrado, quello nel quale soprattutto le sue indiscusse doti di compositore e cantante vengono ancor più esaltate; ed anche i versi, significativi e appassionati, finiscono per sciogliersi nel liquido flusso delle irregolari e sinuose melodie, nel canto ammaliante di questo burbero e sfortunato Orfeo.
 

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