Siamo gente che scava tra le macerie, alla ricerca di qualcosa che è andato irrimediabilmente perduto. La polvere sembra avvolgere tutto ciò che è rimasto in superficie. E di quello che eravamo resta solo uno sbiadito ricordo.

Mi accorgo che sto invecchiando quando, salvo rare eccezioni, non riesco più a ritrovare nella musica moderna le emozioni che cerco da sempre. Forse è la frenesia di questi tempi a sottometterci. O forse siamo noi a segnare il passo. Probabilmente sono entrambe le cose.

Ma quando riprendo in mano certi dischi capisco che è anche una questione di suono. E “Twice Removed from Yesterday” odora di quel blues che disinfetta ogni ferita, di quei suoni saturi e valvolari che l'era digitale non riesce a seppellire.

Nei Procol Harum era un'ombra più bianca del pallido e la sua chitarra finiva inesorabilmente sommersa da cascate di tastiere. Non era evidentemente quella la vera natura del nostro Robin, che nei seventies riuscirà a reinventarsi artisticamente e a diventare un'icona del rock blues. L'Hendrix bianco, come spesso verrà apostrofato.

L'accostamento è di quelli impegnativi e probabilmente non è nemmeno dei più calzanti. Trower non possiede infatti la selvaggia irruenza né la spregiudicatezza del genio di Seattle, ma come affermerà in seguito un ammirato Robert Fripp “è uno dei pochi chitarristi inglesi assoluti signori del tocco e dell’espressività”.

La Robin Trower Band, sospinta dalla risacca del rock di fine anni sessanta, debutta nel 1973 con questo disco ancora acerbo. Ci vorrà un altro anno per rodare la formula e produrre l'esaltante “Bridge of Sighs”, il punto più alto della loro carriera, ma già il trio di canzoni che apre le danze è un biglietto da visita mica da ridere.

L'andamento liquido e sinuoso di “Can't Wait Much Longer”, con il suo refrain irresistibile, prepara il campo alla splendida ballata “Daydream”, dove Trower spicca il volo su quella piccola ala hendrixiana che diventerà un costante punto di riferimento per la critica musicale. “Hannah” è l'ultimo pezzo della triade, ed inizia con un ritmo cadenzato per poi esplodere come una frustata nella parte strumentale centrale.

Una menzione speciale infine al compianto James Dewar, sublime cantante (e bassista) della band, dotato di una voce dalla mascolinità imponente e corde vocali che sono vibrazione dell'anima, che a tratti ricorda il Paul Rodgers d'annata.

Il resto del disco è ottimo mestiere. Trower gioca spesso su un timbro bello grasso, unito ad un sapiente uso del vibrato, liberando il riverbero della sua Stratocaster alla conquista degli spazi sonori. La sensazione è quella di sentire sempre le note giuste al posto giusto. E qui sta la sua vera maestria.

Siamo gente che scava tra le macerie. E niente è come quello che eravamo ieri. Chiedete alla polvere.

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