Roy Harper è stato, indubbiamente, uno dei cantautori britannici più distintivi della sua generazione. Un "vagabondo sofisticato" fuori dagli schemi, idiosincratico verso la fama, riluttante a scendere a compromessi con l'industria discografica, stimato dai più grandi nomi della musica rock inglese, ma figura di "nicchia" dal punto di vista meramente commerciale. La proposta musicale, figlia di una gioventù travagliata e densa di eventi drammatici e rivelatasi fin dall'esordio originale (un folk "verace" tenuamente screziato di psichedelia), è andata ad affinarsi di disco in disco sempre di più, con una rapida maturazione dettata dal malcelato e ambizioso anelito di espandere i "confini" temporali e spaziali della musica folk. Parallelamente a questa "messa a fuoco compositiva" sempre più efficace dei propri moti interiori, si situa uno stile canoro delirante e istintivo, "sede di convergenza", a mio modesto avviso, tra la declamazione nasale del primo Dylan e i melismi e le prolungate escursioni in falsetto di Tim Buckley. "Flat Baroque and Bersek", pubblicato nel 1970, è il suo primo capolavoro e ha in grembo le intuizioni che renderanno un capolavoro ancora più fulgido "Stormcock" ( dato alle stampe nel 1971 e considerato dal sottoscritto uno dei dischi "cantautorali" più belli dei '70). Con quest'opera Harper fuga ogni dubbio sul fatto che possiede un talento superiore rispetto a gran parte dei suoi contemporanei e compie un notevole passo in avanti rispetto a "Folkjokeopus" ( un disco che contiene, a onor del vero, "un flusso di coscienza" avvolgente e per nulla prolisso come "McGoohan's Blues", uno strumentale ipnotico alla Davy Graham, quale "One For All", e, infine, i due stralunati gioiellini introduttivi , cioè "Sgt. Sunshine" e "She's The One", ma che è fiaccato da bozzetti gradevoli, tuttavia "stereotipati" e tesi al mero sfogo della propria eccentricità). Harper compie la "mossa vincente", accrescendo l'enfasi "istintiva" della vocalità (insomma la voce timida di "Sophisticated Beggar" è passato remoto...), riconducibile a un'emotività fragile e "disturbata", ma, al contempo, fiera, e si muove attraverso tre precisi "gesti creativi": l'invettiva torrenziale, che dà come frutti la meravigliosa "I Hate The White Man" dove svetta il canto nitido e sofferto del nostro che va a coronare una ballata anti-imperialista e colonialista satura di intensità, "Don't You Grieve" e "How Does It Feel?" e che risente dell'influenza del menestrello di Duluth; l'idillio sull'orlo della stasi emotiva, filone a cui appartengono "Goodbye" e "Tom Tiddler's Ground"; il bozzetto incantato sospeso tra realtà e sogno, che tradisce l'influenza di Donovan e a cui appartengono tutti gli altri episodi, fatta eccezione per il blues-rock di "Hell's Angels", che fa storia a sè nel disco e dove collaborano i Nice di Keith Emerson. Merita ben più di un cenno la canzone che si rivela essere la classica ciliegina sulla torta di questo splendido lavoro (non a caso abbonderanno le cover): "Another Day". Una melodia bellissima, incentrata sul lento "strimpellio" della chitarra acustica e sulle lievi decorazioni "melodiche" degli archi. La voce di Harper, narrante la fine di un amore, suona flebile, distante, percorsa da un leggero tremolio. Meno di tre minuti in cui i sensi dell'ascoltatore esulano da questo mondo. Se, per caso, avete già "assaporato" lo splendore onirico e mistico di "Stormcock", siete invitati caldamente a passare anche da queste parti.

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