…Amarcord: nel 1981 il ciclone Rush aveva davvero invaso il mondo. Le affascinanti architetture heavy-progressive dei diabolici canadesi si erano rivelate in una successione strepitosa di albums (da 2112 a Moving Pictures, diciamo), in una crescita stilistica che più o meno andava dai Led Zeppelin agli Yes (nientemeno!), sorretta da quelle doti tecniche che facevano vincere loro i sondaggi delle riviste specializzate di mezzo mondo e da un immaginario entusiasmante e personalissimo. Nessun segno di stanchezza per i Rush dal ’74 all’81, pronti a prendere il posto dei ‘dinosauri’ dell’hard rock e del prog classico (che invece qualche problemino ce l’avevano eccome) nel cuore dei music maniacs; e la proverbiale difficoltà degli spacciatori di vinile nel classificare la band, beh, io l’ho sempre intesa come un grande riconoscimento di varietà stilistica e capacità di sintesi compositiva.

‘Exit… Stage Left’ è il loro secondo doppio album live ed il miglior disco mai realizzato dai ragazzi di Toronto, e sono perentorio. Impareremo negli anni che la cadenza ‘quattro in studio / uno live’ (mantenuta dal power trio per tutto il XIX secolo) è insieme celebrazione e chiusura di un periodo artistico in attesa di una nuova mutazione, per cui ‘Stage Left’ celebra e chiude il periodo più propriamente hard/prog/AOR, quello di maggior successo (tre ottimi singoli nelle charts, tra l’altro) e milioni di copie vendute di quattro albums geniali ed adatti all’airplay ma assolutamente non commerciali. Sposare le maestose costruzioni di ‘Xanadu’ (Coleridge, nientemeno) con l’ingannevole immediatezza di ‘Spirit Of Radio’ non è cosa da tutti, anche perché l’intreccio di tempi dispari e stacchi al fulmicotone di quest’ultimo brano è davvero stupefacente, soprattutto per un brano che andò al numero uno in classifica. Ci vollero doti compositive e tecnica strumentale eccezionali, in grado di alleggerire roba degna di ‘Heart Of The Sunrise’ ad uso e consumo dei rockers di tutto il mondo, ed i frutti sono esattamente in questo superbo live album.

Registrato prevalentemente a Glasgow e Montreal, il disco è fasciato nella consueta copertina immaginifica, piena di simboli devianti e messaggi per gli iniziati. La tracklist è assolutamente senza respiro, iniziando proprio dall’hit ‘Spirit Of Radio’ per proseguire attraverso lanciatissime versioni dei migliori brani del repertorio 1977-81 (ed un ripescaggio dal 1975). I tre sono perennemente in assolo, o quasi: trascinante la chitarra di Lifeson (all’epoca utilizzava dal vivo una semiacustica per maggior risonanza, e vale la pena di studiare le sue bizzarre ed intricate diteggiature), mentre la batteria di Peart si conferma ai massimi vertici in campo rock, piena zeppa di rototoms e controtempi con aggiunta di glockenspiel, roba paragonabile solo a Carl Palmer. Geddy Lee è quello che dovrebbe divertirsi di meno: cantare a quei livelli inarrivabili (infatti non ci arriverà più) suonando contemporaneamente un basso tonante ed onnipresente, tastiere e pedali in alternativa ed in un brano pure la chitarra elettrica, lo avvicina come nessun altro ad una sorta di Otto e Barnelli del rock, e fare il divo del rock con quel po’ po’ di naso ed essere pure simpatico… punto. Nel 1981 i Rush sono l’università dell’hard rock, ascoltare e prendere appunti e fare tanti compiti a casa, altrimenti nisba.

Vertici di un set strepitoso sono la strumentale ‘YYZ’ (che sarebbe poi il codice dell’aereoporto Pearson di Toronto), arricchita da un famoso ed inarrivabile drum solo; l’epicissima ‘Xanadu’; la biblica ‘Jacob’s Ladder’, e soprattutto la misteriosa ed onirica ‘Villa Strangiato’ finale, che i Rush definivano ‘an exercise in self-indulgence’ e racchiude in nove incalzanti minuti, resi sul palco in maniera migliore e più trascinante che in studio, davvero tutta la tecnica e l’immaginazione possibili. (Un brano che nel ’78 il trio provinò più di 40 volte, prima di padroneggiarne l’esecuzione ai fini della registrazione, e che loro suonano qui con perfetta nonchalance, divertendosi anzi e gridandosi impercettibilmente amenità da una parte all’altra del palco). Il pubblico mostra di gradire ovviamente anche i successi, e la bella ‘Tom Sawyer’ e la popolarissima ‘Closer To The Heart’ (ah, gli scritti di Ayn Rand!) non possono mancare in un set in cui il chitarrista si concede pure un bell’inedito acustico classico in apertura della classica ‘The Trees’.

Rimasero fuori dall’album (disco d’oro nel giro di qualche mese) una notevolissima versione della ‘2112 Overture’, nella versione in medley con ‘By-Tor And The Snow Dog’, e pure ‘Camera Eye’ e l’iniziale ‘Limelight’, ma non si può avere tutto dalla vita, immagino. (Perché no? Caldeggio una ristampa con bonus tracks).

Nessuno di noi fa davvero testo, ovviamente, ma in una discoteca di genere ‘Exit… Stage Left’ non dovrebbe mancare per alcun motivo. Certo, se uno gli stanno sulle palle quelli che compongono cose fichissime e cantano e suonano da paura si può astenere, ci mancherebbe. L’alternativa alla conoscenza totale ed alla successiva venerazione di questo disco da dieci e lode è la discografia completa di Leone di Lernia, immagino. Fate vobis.

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