I Rush sono una delle migliori cose che la musica contemporanea ha dato alla luce. Decidere di puntare l'obiettivo su un loro album è tremendamente difficile, data la vasta e variegata discografia che hanno prodotto.

Siamo nel 1975 e la band è al suo secondo disco. L'omonimo del 1974, prima loro pubblicazione, ha il sapore dei seventies ma qualcosa che manca: nonostante le capacità tecniche e compositive del leader Geddy Lee (bassista-cantante) i brani non si caratterizzano del tutto, pur volendo uscire da quel terribile buco del sentito e ripreso (era il periodo d'oro dei Led Zeppelin, e gli schiamazzi di Lee su quella base settaniana lo rendeva troppo simile a Plant).

In Fly By Night c'è una novità: entra nella formazione un nuovo batterista, Neil Peart, mostro sacro delle percussioni (e tuttora ritenuto uno dei batteristi piú bravi ed eclettici del rock). Ed è tutta un altra musica! I Rush acquistano vitalità, come se avessero incontrato l'amore della loro vita ("azz... sai che ti vedo proprio bene? che hai fatto?"). Anthem, l'opening track, è sorprendente. Il sound non rinnega i seventies, ma è incredibilmente maturato. La batteria sostiene energicamente gli strumenti, che, come se avessero preso sicurezza, si abbandonano a composizioni strutturate ed esaltanti.
Il basso di Geddy Lee, la chitarra di Alex Lifeson e la batteria di Peart amoreggiano in continui menage a trois come "Best I Can" o "Beneath, Between & Behind". È in "By-Tor & The Snow Dog" e nel suo orientamento progressive che si legge il futuro della band, dominato da stacchi, tempi composti e sperimentazioni. Segue la title track "Fly By Night", incredibilmente affascinante con la sua genuinità e quel giro di basso che sbarra la via a tutte le sue "impossibili" varianti.

Quello è, e quello resterà per sempre. Fly By Night è sicuramente un ottimo disco per cominciare a conoscere questi tre "geniacci".

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