Sono in viaggio. Questa settimana ho attraversato confini spazio-temporali spostandomi dal Pakistan al Marocco, da qui all'India e quindi dalla Persia al Baloutchistan, planando in Mauritania, sorvolando lo Yemen diretto in Tadjikistan: dal tappeto volante digitale osservo le immense distese desertiche, le moltitudini che le attraversano, gli anfratti tra le rocce che corrugano la superficie terrestre trasfigurandola in sembianze misteriose. Mercati vociferanti e multicolori, brulicanti, poi spazi di silenzi assoluti ed enigmatici dai quali si levano voci salmodianti, indecifrabili geroglifici sonori in spirali ascendenti verso il cielo. Ho udito suoni provenienti da un passato tanto distante da apparire estraneo persino ai suoi odierni figli, proiettati in un futuro che non prevede passato. E li ho scoperti, quei suoni, vicini ed attuali, commoventi. Ho benedetto la benedetta assenza di parole e, quando ho udito parole, ho benedetto invece la mia vasta ignoranza: per me son suoni tra altri suoni, sinuose linee vibranti, mistero nel mistero.

Ma ora, per le strambe rotte tracciate dalle coincidenze, son finito qui, secoli dopo, all'altro capo del mondo, in una terra ancora fanciulla ma già enorme, dove 40 anni son passato remoto, distanza abissale, storia. Sono qui, nell'America che si sta risvegliando da un sogno sognato dalla sua gioventù per aprire gli occhi sull'incubo di una guerra persa, una ferita che non si rimarginerà. Ed in fondo non è strano come m'appare al primo ascolto, che proprio qui, ora, nel 1968, le mani di un giramondo a stelle e strisce, tessano i fili di un suono che porta con sè echi e vibrazioni e dilatazioni che ho udito lontano, nel tempo e nello spazio: in quell'incomprensibile oriente millenario, nei raga indiani, nell'estatica reiterazione della musica sufi, nella cristallina luminosità inquieta di un oud solitario. E non è affatto strano che questi fili si intreccino con l'anima di un blues dilatato e pulsante, onirico. E' anzi, in fondo, naturale: questi "capelloni" erano in viaggio, verso un'altrove che li riportasse al centro del mistero che li abitava, che ci abita. Ed il viaggio prevede incontri, scoperte, condivisioni, visioni.

"E Pluribus Unum", registrato da Sandy Bull nel '68 e pubblicato un paio d'anni dopo, è un disco diviso in due lunghe parti. La prima è psichedelia basica generata da una chitarra che assume a tratti le sembianze di un sitar o di un oud, simulandone il suono, l'incedere. Percussioni minime, fragranze d'oriente e retrogusto folk: semplici cellule sonore che si arrotolano e insistono, sino a cavalcare sè stesse, dopandosi di effetti primordiali per trovare infine pace, come al fondo di una lungo cammino o di una inesausta preghiera, ancora in un lampo d'oriente che chiude il brano. La seconda traccia è un blues che avanza lottando con la resistenza opposta dalla farraginosa sostanza soora nella quale è immerso. Trasfigurato, si riaccende in riconoscibili bagliori e poi torna a dilatarsi, disgregarsi. Rurale e spaziale, incerto e indomito, si nutre muovendosi tra le spore che genera.

Dicono che il vero capolavoro di Sandy Bull sia un altro disco, precedente, che ho scoperto essere già presente in DeBaser. Lo cercherò sicuramente, perchè ancora più disciolto, pare, nell'oceano di musiche "altre". Ma se siete frequentatori delle produzioni di quella straordinaria decade e amate incrociare figure poco illuminate dalla gloria (anche postuma) date una possibilità a questo disco, credo che la sua genuina ricerca vi affascinerà.

Io torno sul tappeto volante digitale: sorvolando la Persia, una trentina d'anni dopo, ho visto un grande musicista alle prese con uno strano strumento dal suono sublime: scenderò ad ascoltare.

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