La registrazione di “Boom Boom” (tra l’altro uno dei brani più coverizzati della storia del blues) di John Lee Hooker per il film The Blues Brothers di John Landis è stata effettuata in presa diretta. Insomma, nella scena de i “quattro polli fritti e una coca” e del “pane bianco tostato”, in cui Jack & Elwood per mettere in piedi i diversi pezzi della band fanno tappa al ristorantino dove lavorano Matt Murphy e Lou Marini, John Lee Hooker sta effettivamente suonando Boom Boom innanzi al locale a un angolo di Maxwell Street a Chicago e questo, tra i tanti momenti del film, è forse quello lì che, tra tutti, più rappresenta, ci offre un quadro, la visione realistica di uno spaccato della più grande metropoli dell’entroterra statunitense.

Storicamente una delle maggiori roccaforti del partito democratico; capoluogo della contea di Cook, stato dell’Illinois, la città di Chicago vanta, considerando l’intera area metropolitana, “Chicagoland”, circa dieci milioni di abitanti e, poiché costituisce storicamente uno dei principali centri commerciali e industriali degli USA, questa è diventata negli anni una delle città più influenti al mondo. E’ una città multietnica e, per quanto riguarda l’aspetto musicale, una delle città dove la musica blues abbia sempre e storicamente avuto un ruolo centrale, poiché, data l’importanza economica della città, questa fu meta di migrazione di molti afroamericani dagli stati del sud nella prima metà del secolo precedente. Tra questi, tra i musicisti blues nati a Chicago, è impossibile non citare personaggi centrali nella storia e nell’evoluzione del genere e della musica americana come, per esempio, Muddy Waters e Howlin’ Wolf. Insomma, in questo senso, il fatto The Blues Brothers sia ambientato proprio a Chicago e la centralità della musica blues in questo film non sono affatto casuali. Del resto proprio qui sono nati anche lo stesso regista, John Landis, e soprattutto John Belushi, vero e proprio mattatore della celebre pellicola cinematografica.

Adesso, dopo trent’anni da The Blues Brothers e nonostante la crisi economica, come detto, Chicago ha resistito e ha continuato a crescere e ad aumentare il suo ruolo culturale, economico e sociale all’interno degli USA e pure a continuare e divenire meta e punto di incontro di persone provenienti da tutte le parti del mondo e appartenenti a tutte le diverse etnie possibili. Questo ha fatto sì che, nel tempo, la struttura multietnica della città, anziché dare luogo a una specie di ghettizzazione e di comunità separate, si tramutasse invece in un vero e proprio centro culturale ideale.

Il rapper David Cohn, a.k.a. Serengeti, nasce e cresce a Chicago. I genitori sono divorziati, così cresce per metà del tempo nel South Side, abitato per lo più solo da neri, con la madre, che di mestiere fa la segretaria, è atea e dichiaramente comunista; l’altra metà del tempo, invece, la passa con il padre, nei sobborghi dell’Olympic Fields, uno stressato commerciante della classe media. David Cohn è il nipote di Sonny Cohn, trombettista di Count Basie per trent’anni, ma si avvicina alla musica tardi. In ogni caso, date tutte queste premesse… tutte queste premesse dimostrano come David Cohn, come la musica di Serengeti, per quanto generalmente definibile come musica hip hop oppure rap, affondi le sue radici nel patrimonio della musica blues e jazz della sua città e soprattutto sia condizionata e influenzata culturalmente dalla grande città di Chicago e, in particolare, dal contesto in cui lui è cresciuto.

A parte questo, ascoltando le sue registrazioni, è evidente come la musica di Serengeti sia condizionata dall’ascolto e dalla mescolanza di diversi generi, tra cui la musica elettronica e anche un certo garage rock americano a la Ty Segall oppure alla Mikal Cronin e come non citare il solito Beck Hansen, non a caso un maestro nella mescolanza e contaminazione dei generi, così come Sufjan Stevens, collaboratore, con Son Lux, dello stesso Serengeti prima nel progetto s/s/s (da cui l’EP Beak & Claw nel 2012) e nel recentissimo progetto Sisyhpus con cui hanno rilasciato un album proprio nei primi mesi di questo anno nuovo 2014.

Le tematiche, i temi trattati dalle canzoni di Serengeti, invece, affondano a piene mani nel patrimonio culturale della città di Chicago. Sfuggendo ai tipici stereotipi della musica hip hop mainstream, che David considera deprimenti e vuoti sul piano dei contenuti, questi ogni volta nelle sue canzoni cerca di raccontare uno spaccato della sua città e molte volte lo fa vestendo i panni di diversi personaggi più o meno caratteristici. Il più celebre tra questi, appunti è proprio Kenny Dennis. Il personaggio di Kenny fa il suo esordio nel disco Dennehy nel 2006, viene riproposto nel Kenny Dennis Ep del 2012 e definitivamente consegnato alla storia della musica americana e all’immaginario collettivo di quello che proprio Stevens definì come Illinois-e con questo disco qui, l’ultimo di Serengeti pubblicato nel 2013, Kenny Dennis Lp.

Il disco, prodotto da Odd Nosdam (Clouddead), è uscito con l’etichetta indipendente di Los Angeles Anticon (quella tra gli altri di Son Lux, Tobacco, Why?) e ha raccolto più o  meno ovunque consensi e recensioni positive da parte della critica ed è stato pure bene accolto dal pubblico negli USA, mentre in Europa e specialmente in Italia il suo nome continui ancora oggi a non essere particolarmente famoso e cominci solo ora a circolare, dopo la collaborazione con il più celebre Sufjan Stevens.

Più che le precedenti produzioni di Serengeti, Kenny Dennis presenta ancora di più uno stile narrativo che, date pure le debite differenze temporali e strettamente musicali di genere, non può che rimandare proprio allo street-blues improvvisato di Johnny Lee Hooker oppure a quel rock’n’roll quasi parlato tipico di un certo Lou Reed, vedi/ascolta New York. Così, proprio come in New York Lou Reed racconta delle storie, diversi spaccati di vita della sua città e in modo particolare, al solito, seguace di un idealista come Garland Jeffreys, raccontando in modo particolare la realtà difficile degli emarginati, di persone che abitino in un contesto difficile come quello di una grande città abitata da persone provenienti da ogni parte del mondo e appartenenti a ogni razza, specie, cultura e credo religioso possibile; allo stesso modo il personaggio di Kenny Dennis costituisce un personaggio tipico della città di Chicago. Kenny Dennis, anzi, è la città di Chicago, questa costituisce il suo (relativamente piccolo) mondo ideale come la tabaccheria a Brooklyn di Auggie (Harvey Keitel) in Smoke e Blue in the Face di Wayne Wang. Solo che qui la passione per i Dodgers viene sostituita da quella per i Chicago Bears e i riferimenti di tutti i tipi possibili non riguardano Brooklyn negli anni novanta, ma la città di Chicago dei giorni nostri.

Insomma, chi è alla fine Serengeti? Chi è Kenny Dennis? Secondo molti potrebbe essere semplicemente un fottuto rapper del cazzo oppure un nerd solo perché insiste nel portare un berretto da baseball e quei maledetti baffoni; oppure, secondo molti altri, David Cohn in realtà sarebbe quello che è: un bluesman dei nostri giorni che, nelle sue canzoni e con la sua maledetta ironia, si sforza di intrattenere gli ascoltatori, ma pure di andare oltre e raccontare delle storie, delle storie della vita di tutti i giorni e che, come tali, significhino qualcosa per se stesso e per tutti gli altri. A prescindere se tu sia di Chicago oppure no, se tu sia bianco oppure nero, se tu sia nato negli USA oppure se tu sia un italo-americano, un ispanico. In ogni caso, fratello, “Mi casa es tu casa.”


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