Terzo disco dal 1995 della band di Steve Albini, fino al 1987 nei Big Black (ricordiamo una gran cover di "The Model" dei Kraftwerk) e poi uno dei più richiesti ingegneri del suono della scena indie per Nirvana, PJ Harvey, Pixies, Helmet, Wedding Present. Poi nel 1995 a sorpresa con "At Action Park" ha ripreso a fare dischi in proprio, prendendo il nome della band dalla resina con cui sono fatti i vecchi 78 giri, quelli pesanti che non si piegano, da 177 grammi. E con questa immagine si spiega al meglio la musica degli Shellac, rock semplice, spartano, minimale, analogico, registrato senza overdub, in presa diretta, un combo basso/chitarra/batteria che non ha paura delle pause di silenzio, che riempie il vuoto con il vuoto, con la chitarra che esce dall’ampli senza trattamenti, col coraggio di essere nuda. Canzoni basate sulla dinamica, prive di ogni virtuosismo tecnico ma basate quasi esclusivamente sulla dinamica, costruite sugli staccati incessanti, col suono che ad ogni ascolto sembra essere rimodulato dalle casse. Questo "Mille Ferite" è un lavoro esemplare per l’ approccio di Albini alla produzione ed al song-writing; tutto nasce intorno ad un riff abrasivo e penetrante ripetuto all’infinito, col basso che va in controtempo e segue linee melodiche proprie (in "Song Against Itself" lo vediamo teorizzato nel verso "This is the song against itself/It's of two minds of its own") Nella canzone che apre il disco, "Prayer to God" la voce di Albini sommersa nel mix dopo l´introduzione "To the one true God above:here is my prayer/not the first you've heard/ but the first I wrote/not the first, but the others were a long time ago/There are two people here, and I want you to kill them"urla all´infinito “kill ´em just fucking kill ‘em” di rabbia primordiale. È questa la sua forma-canzone, da questo groviglio claustrofobico si alza poi una frase, una melodia, per poi ricadere indietro e ripartire, compatta, solida, diretta. Rock a ingranaggi, a clockwork, meccanico. Gli Shellac dimostrano nel loro purismo minimalista come si possano comporre canzoni spogliate dalla produzione. Il meno è piú, dicevano al Bauhaus. Un disco magistrale e senza tempo, per una delle band più influenti di oggi.

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