Sono nato in una calda mattinata di fine anni '70 da madre nilla pizziana e padre Gran Sacerdote del Liscio, oggi agnostico musicale.

Ho passato l'infanzia a schivare l'elettropop anni '80 che mi veniva consigliato dal Super Telegattone, ho dedicato la pubertà alla ricerca di un detersivo che rispettasse i colori delle mie camice di flanella e ho consumato l'adolescenza nel vano tentativo di digi-evolvermi in "Tetsuo - The Medal Man".

Musicalmente parlando, non so dove sarò tra dieci anni. Forse non so nemmeno dove sono adesso. Ma quando capisco che tutte 'ste pippe mentali stanno prendendo il sopravvento sul mio stereo,  me ne scappo in villeggiatura alla sagra del revival rock anni '60/'70 organizzata da questi cinque ragazzi di Stoccolma.

"Kaleidoscope" ('04) è il secondo album dei Siena Root e, per quanto mi riguarda, il migliore della loro discografia: una gran bella giostra di quelle grosse e colorate, in cui la musica degli Dei Antichi del rock scalcia, scalpita e scivola, scopre le gambe e mette in mostra i muscoli, ammicca e manda affanculo sempre con una certa classe, sempre con un certo savoir faire.

Un disco in cui mutui trentennali di grand funk rock hendrixiano si pasciano del miracolo della moltiplicazione dei wah wah. Cavalcate hard rock, giunte con posta prioritaria dai magazzini di Zeppa e Deep Purple, formano un tappeto groovy e roccioso su cui l'hammond può ricamare pizzi e merletti di terzine in puro John Lord Style ("There And Back Again", "The Good And Bad").

Riff sabbathiani riciclati e ridotti a girarrosto per un florilegio jammistico di tastiere e fiati ("Reverberations"), accompagnati da spezie psichedeliche e intermezzi strumentali dal retrogusto etnico, che insaporiscono il brodo allungandolo, dilatandolo, fino a fargli lambire i confini di uno space rock al curry, tra Bombai, Babilonia, Bellatrix e Betelgeuse ("Bhairavi Dhun").

Bluesacci dall'anima soul, che ti aspetteresti di ascoltare in uno di quei bar dove la gente si incontra per rimettere insieme cuori andati in pezzi ("Blues 276"), e una voce femminile che su tutto domina: "nera" al punto giusto come un buon caffè, roca e grintosa, ma capace di abbandonarsi a improvvise correnti ascensionali di lirismo. Una di quelle voci da cui ci si lascia volentieri coccolare e maltrattare, accarezzare e sculacciare.

Non un capolavoro. Piuttosto un gran bel disco di hard rock vecchia maniera, forse nostalgico, ma mai patetico, che sfoggia la propria derivatività con orgoglio, come fosse una medaglia.

Non so se tra dieci anni starò ancora facendo i capricci per rimanere su questa stessa giostra. Per adesso me la spasso. E poi, se prendo la codina, il prossimo giro è gratis...

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