Fra ritmi marcianti, tribali, melodie chiare e leggere, accortamente ridondanti, si snodano altalenanti un falsetto spensierato ed un canto libero appena ruminante. Così s'apre "Með suð í eyrum við spilum endalaust": un'atmosfera terrena, non più eterea, e concreta, sprigionata dalle pulsazioni del sangue ardente sotto il sole di questi ragazzi che, nudi, corrono verso la selva incontaminata, slanciandosi via, lontano, oltre il cavalcavia della fumosa civiltà del cemento. Un messaggio artistico in linea con i precedenti lavori degli ormai celebri e affermati Sigur Ròs, ma espresso in forma del tutto diversa.

Questo nuovo stato d'animo e una complessiva tendenza alla forma canzone più tradizionale sono però le uniche caratteristiche proprie di questo disco: infatti immerso in quest'atmosfera di nitidezza, dopo la title track ("Gobbledigook"), unico rilevante cambio di tono a livello musicale, l'album s'addentra nei ricordi, sfuma già nel sublime incedere di "Inní mér syngur vitleysingur", ch'esplode in trombe ed archi festosi, ricordante le più celebri di "Takk..."; in pregiate rivisitazioni delle atmosfere di un classicheggiante trascendere ambient dell'"Ágætis Byrjun" ("Festival"); negli echi a cuor leggero della psichedelia freudiane dello straziante "()"; negli sfoghi acustici e notturni del cantante Jonsì, che affianca ai toni seraficamente angelici a quelli profondamente umani, con la sua chitarra, in memoria delle rivisitazioni di "Hvarf/heima", di quel ben confezionato regalino natalizio/ridesta-attenzione dei fan.

Cioè: un assemblaggio creativo e fantasioso diviso in blocchi ben compatti di tutte le identità, le peculiarità, gli stati d'animo che hanno reso i Sigur Rós capaci in precedenza di un incanto raro, nell'epoca dell'usa e getta come in molte altre epoche: l'incanto del percuotere le corde essenziali della natura umana, raggiungendo ampio successo e popolarità, di là del tempo e dello spazio, della relatività, senza scendere ai compromessi, con la difficoltà del suono di strutture di non facile divulgazione, ricercato, prezioso, complesso, "elitario", ma irresistibilmente, innegabilmente arricchente, affascinante nel modo indicibile in cui affascina inconsciamente il valore assoluto della passione misteriosa della vita.

Ma in questo disco, il quale più che un album è un revival di gruppo, in compagnia di sontuose armate musicali, si osserva invece una povera  riflessione, ove i Sigur Rós si auto-parodiano e auto-imitano, fra nostalgia del passato e stentata determinazione di proseguire diversamente, come tanta critica si auspica.

Questa deficienza emotiva, questa assenza dell'essenza, rende le grandi orge degli archi degne degnamente solo dei film Disney, i vaghi echi psichedelici o post-rock tediosi, vacui e disomogenei, il minimalismo acustico adattissimo solo di discreti falò, le pop-song alla takk degne solo di mp3 distratti. 

Siamo all'alba del declino della Rose Of Victory, (significato di "Sigur Ros")?  O il fumoso successo del grande mondo discografico, che mette gli animi degli artisti al contatto con la ragion di mercato, con quelle canzoni prezzate sul sito ufficiale, in tutto dieci euro!, (dopo però la pregevole mossa di proporre l'intero disco in free listening per un certo periodo) ha annerito le algide ali dell'ispirazione della band islandese, proprio ora che l'acclamazione generale fornisce loro i più svariati e tecnologici e servili supporti alla loro musica? Semplicemente ci si aspetta troppo da questa comunque grandiosa band?Siamo ad un disco di passaggio? Di maturazione artistica?

Sebbene strapperanno sicuramente qualche sorriso, qualche bella rappresentazione live, le note dei Sigur Rós in sè, stavolta, non sono riuscite a contare poi molto. 

 

Carico i commenti... con calma