I Sigur Ros rappresentano dal 1997 un'evidenza artistica troppo luminosa per poter essere osservata da chiunque: o si amano o si odiano, difficile il compromesso.

Dopo una svolta pop che sembrava agitare nell'aria voci di scioglimento, o se non altro di crisi, i Sigur Ros hanno deciso che un silenzio di quattro anno poteva essere interrotto da un'uscita come questa, sottile ricapitolazione di esperimenti già visti in passato. Maturati, e forse addirittura scaduti. Ma proviamo a non considerarlo come un dato negativo: il valore di un disco come ( ) non ci può far pensare a Valtari come ad una mera trovata commerciale.

L'ultimo album porta avanti un discorso decennale di ricerca sul timbro e sulle possibilità di descrivere un mondo esclusivamente filtrato dal senso estetico di Jonsi. Sicuramente ci si emoziona ancora, e tanto (Varuð), ma paradossalmente questo sembra non bastare più. Il rinnovamento si limita ad inserti elettronici (Rembihnútur) che per quanto levigati alla perfezione non modificano il carattere essenziale della produzione. Non si può chiedere a Jonsi di lasciarsi alle spalle i suoi drammi esistenziali, anzi, essi rappresentano il fuoco della poetica del gruppo, un fuoco che brucia sulla punta di una montagna, dove potersi fermare e osservare tutto, compiangendo la propria miseria umana, e urlare a tutti di non essere ascoltati.

Qualche minuto in meno avrebbe reso l'ascolto più scorrevole (Varðeldur poteva essere risparmiata) ma soprattutto le dinamiche, così riverberanti, tendono a risultare angosciose e asfissianti, tolgono il respiro. Ma come detto in apertura, nel trattare i Sigur Ros tutto vale anche il suo perfetto contrario.

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