Qualche volta è bello così.
Senza sapere nulla, senza aspettarsi nulla.

E quando il lettore comincia a far ruotare il cd aprendo uno spazio sonoro intorno a te, entrare, come un ignaro viandante, nella luce incerta di un’alba acustica e fragile.
Poco più di niente; note centellinate dalle corde di una chitarra, un soffio lontano percepibile a stento, come l’eco di un sogno appena disciolto. (“Torn By Wolves”–1’44’’)
Ma la luce vince le resistenze dell’oscurità e gli occhi iniziano a distinguere più nitidamente i contorni, mentre ti inoltri in uno scenario aperto su una vastità che, in qualche modo, appartiene ancora al regno esitante e sospeso dei sogni.
E procedi in questa dimensione acustica e ovattata, quando una voce fa la sua apparizione, suggerendo  l’idea di una semplicissima melodia più prossima ad una  intima confessione che ad una canzone.
Intanto i suoni acquistano corpo, prendono a sovrapporsi in uno strato elettrico, mentre il sospiro etereo di una voce femminile mantiene tutto in bilico, in uno stato ancora quasi onirico.  (“Bless Your Blood”–5’59’’)
Poi, nuovamente sulle corde di un’acustica, dalle movenze sinuose avvolte dal flusso elettrico che inizia a dilatarsi in onde circolari sempre più sature, entri in una ballata screziata da sapori orientali, un piccolo mantra blues polveroso. E nel finale, mentre sale la marea delle chitarre, uno squarcio temporale ti porta da qualche parte in una California psichedelica ed acida. (“Black Wall”-5’31’’)

Ma appena il feedback si spegne sei al centro di una zona desertica.
L’intreccio di corde acustiche ed elettrificate movenze western evoca il fantasma di Morricone, in groppa ad un cavallo al trotto in un deserto ospitale, tra piccoli bagliori di wha-wha e l’eco di un etereo coro quasi celestiale. (“The Desert Is a Circle”–2’.59’’)
Quando il deserto scompare ti trovi in una zona più imprecisa: inizia tutto con un ripetuto arpeggio acustico, che di nuovo sceglie un moto circolare suggerendo uno stato di lievissima ipnosi. Ma il rombo delle percussioni si fa più serrato e ossessivo mentre le frustate sui piatti  scandiscono l’irrompere di una massa di suono distorto, sferragliante e magmatico che si aggroviglia su se stesso per poi cessare di colpo. (“Attar”-2’.55’’)
Ed è nuovamente la delicatezza a sorprenderti, appena uscito dal piccolo turbine finale di “Attar”. La delicatezza della cristallina limpidezza delle corde di una chitarra acustica; pochi suoni rilasciati in uno spazio ora terso e vuoto. Come per concederti un momento di pace, una sosta prima di un nuovo, imprevisto, cambio di scena. (“Wolves’ Pup”– 1’.52’’)

Perché quel che accade da questo momento in poi sarà difficile raccontarlo con precisione.
Ricordi dapprima un suono, come il  sorvolare incessante di un elicottero in lontananza. O forse, immerso in uno stato di torpore inquieto,  l’ingresso in una lunga galleria sonora umida e buia. Il flusso ininterrotto di quella frequenza scura. E dentro quel flusso echi e stridii. E la sensazione crescente di incertezza, mentre nella galleria inizia a rimbombare un coro senza parole, ripetuto, costante.  E ritmi caracollanti di percussioni. E quel flusso che si accresce di altre schegge di suoni, di distorsioni e sibili. Sempre più avvolgente, sempre più saturo.
E tu, immobile, attraversato dal corpo del suono, o dentro il suo corpo.
Stordito e affascinato dall’apparente immobilità di questa condizione quasi non percepisci il lento dissolversi, tra spettrali echi di voci, della materia sonora nel quale sei immerso, ormai ipnotizzato.
Fuori da quella oscurità, nel vuoto al quale ti consegna lo sfibrarsi del suono al termine del viaggio, resti abbacinato dalla luce. E senti ancora vibrare in te quelle frequenze scure. (“River Of Transfiguration”-23’.50’’

The Sun Awakens è il recentissimo disco di Six Organs Of Admittance, progetto di Ben Chasny (Current 93, Comets On Fire) e segue “School Of The Flower” del 2005 che la pagina di DeBaser descrive come  più segnato da un anima folk.
Ma queste cose le ho scoperte dopo, avendo preso il disco a scatola chiusa, completamente ignaro di quel che contenesse. Le impressioni che riporto sono quindi quelle di un primo ascolto: non avevano elementi di paragone e possono soffrire di qualche ingenuità.
Ma lo riascolterò. L’alternarsi e il convivere di episodi acustici e “parafolk” e ruvidità elettriche, sino alla catarsi che “implode” nella lunga traccia finale, ne fanno un disco particolare, un ponte gettato tra suoni distanti nel tempo, con una identità indefinibile.

Ma sono curioso di sentire il parere di chi bazzica con più assiduità questi territori musicali.

Per me, disco consigliato.
Per voi, a limitare i rischi  di un’ incauta fiducia, la solita copiosa pioggia di samples.
E buon ascolto.
 

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