SLIVOVITZ - "Hubris" - 2009

Zorn a Surriento”, ecco il titolo che mi ha fatto intrigare a questo lavoro. Titolo a dir poco geniale che fa parte di un lavoro che di colpi di genio ne ha da vendere.

Il disco “Hubris” è il secondo degli Slivovitz, band che a dispetto di un nome tipicamente balcanico, preso dall’acquavite di prugne, è invece orgogliosamente napoletana, tanto che in ogni cover inseriscono il ciuchino in varie forme, anche nel disco ora in uscita.

La loro proposta è alquanto trasversale e presenta una miscellanea di stili e culture che convergono in un qualcosa di personale a oltremodo intrigante. Il sapore della summa è quello della cauta sperimentazione, dominata da un jazz rock dalle forti e decise tinte mediterranee. Pensiamo ad una carta geografica con al centro un crocevia al quale convergono strade di diversa provenienza, balcanica, mediorientale, partenopea, nord africana e dal sud dell’Inghilterra. Il crocevia sono proprio gli Slivovitz e le loro pazze scorribande musicali, divertenti e dannatamente ben riuscite. Un nodo fondamentale è il line-up composto da ben sette elementi, spesso polistrumentisti, che va a fondere in un tutt’uno una serie di piani e spazi musicali molto vari tra loro. Così è facile sentire, al fianco di strumenti classici da rock/jazz band, cose meno tipiche e più spesso utilizzate nella musica etnica e tradizionale, specie in ambito percussivo. Il pieno che ne deriva è assolutamente grande e dà modo ai componenti di dimostrare anche notevoli capacità tecniche.

In ognuna delle 12 tracce c’è una grande produzione di idee e di forme diverse, i brani cambiano e si evolvono nelle loro contaminazioni in una giostra che gira presentando sempre facce nuove e mai consuete. La già citata “Zorn a Surriento” apre il lavoro in maniera emblematica, con i suoi su e giù, tra caldi climi mediterranei e mediorientali e fredde esplosioni zorniane, ferma sulla sua base da jazz rock sano e passionale. Suoni coinvolgenti e marcatamente canterburiani sono rintracciabili in “Errore di parallasse” e in "Né carne" e "Né pesce" nelle quali gli Hatfield and the North sembrano trasferiti temporaneamente sulla costiera campana. Poi c’è il travolgente sviluppo di “Canguri in 5” ricca, con i sui temi di violino, dei sapori forti e accesi dei suq mediorientali, il “5” fa riferimento al tempo del tema principale, appunto in 5/8. Poi c’è da citare la notevole “Tilde” un jazz baldanzoso e tracotante (Hubris, in greco), ricco di personalità e movimenti cangianti, dove il violino è ancora protagonista assieme ad una parte ritmica di alta scuola. Poderosa nel suo groove funkeggiante è l’unica traccia cantata “S.T.R.E.S.S.” acronimo di “Sono TRanquillo Eppure Spesso Strillo”, che, con la sua forte impronta partenopea, porta a ripensare ai Napoli Centrale, ma anche a certe cose del miglior Pino Daniele. Notevole anche la conclusiva e weatereportiana “Sig. M. Rapito dal ventodai bei movimenti generati prima da un rotolante sax e poi da un cortese violino.

Insomma, inutile proseguire con carrellate di titoli e nozioni varie. Il disco è certamente tra le cose più interessanti, personali e serie uscite nel territorio italico nell’ultimo triennio e ve lo consiglio in maniera calda.

P.A.P.

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