"Feels like all the days are gone. Just catch the breeze.."

Nei primi anni Novanta, in terra d'Albione, "shoegaze" era la parolina magica che apriva qualunque cazzo di porta ai furbi scribacchini musicali. Indicava quei musicisti letteralmente ripiegati sui propri strumenti, durante la trance agonistica-esecutiva di note galleggianti tra feedback, psichedelia e dream pop (che spesso collimavano tutti insieme felici e contenti in un ambient più o meno distorto). I famigerati "fissa-scarpe". "Shoegaze" era un curioso neologismo, che aiutava Rob Fleming a incasellare nello stesso scaffale gruppi come Curve, Ride, Lush e i pionieri ultra-sonici My Bloody Valentine del geniale Kevin Shields. Enormi muri di chitarra su melodici mantra pop, chi scrisse "..dei Beach Boys in acido.." parlando di Shields & co. non si sbagliava. Ascoltavo "Loomer" e avevo un insopprimibile voglia d'inchiodare alla parete il mio peluche di Winnie The Pooh preferito. Bello e istintivo, chiribbio. Però c'erano altri che rallentavano ulteriormente un sound originale e spigoloso, fino a creare vere oasi atmosferiche di pace. Dei sognanti voli di beatitudine. Un'esperienza a volte così intimamente spirituale da far apparire un pullman di pellegrini a San Giovanni Rotondo dei fottuti edonisti in visita al Luxor di Las Vegas (o a Graceland, fate un po' voi ). Gli Slowdive nacquero a Reading nel 1989, dall'unione di tre giovanissimi ventenni: Neil Halstead e Rachel Goswell, chitarre e voci, e il bassista Nick Chaplin, che riceverà nel sonno l'input per il futuro nome della band. Con il chitarrista Christian Savill e innumerevoli cambi alla batteria (Adrian Sell, Neil Carter e infine Simon Scott), questi baldi giovanotti, davvero in gamba, sono pronti alla pubblicazione di numerosi ep che manifestano un talento già fantastico. La Creation della volpe Alan McGee intanto li mette sotto contratto.

"Watch the waves so far away. They're washing 'cross the paths that I have made. Leaving all my sins, i turn away..."

Nel corso del '91 "Morning Rise", con gli intrecci memorabili della title-track e "She Calls", e "Holding Our Breath" (che include una prima versione di "Catch The Breeze" e "Albatross") rappresentano un gustoso antipasto alle meraviglie del capolavoro "Just For A Day", che uscirà a settembre (un mese biblico, ragazzi). Raramente la cover di un album ne visualizza in maniera tanto esemplare il contenuto: la stupenda immagine al ralenti della giovin donna, virata in un rosso debordante e sfuocato, è un potente contesto mentale ai quarantatre minuti di "Just For A Day". Una danza onirica e sensuale. Un viaggio dentro i ricordi del nostro cuore, su landscapes eterei e remoti. E' la memoria, che detestiamo (e rovistiamo) perché adora travestirsi da scorbutico rigattiere dell'usato. Quella memoria che rivive nel cupo progressive di "Spanish Air", nell'incantesimo e catarsi di "Celia's Dream", nell'ascensione divina e umana di "Catch The Breeze", nella malinconia cosmica della "Ballad Of Sister Sue". Il canto ipnotico di Rachel è una candela nell'oscurità ("The Sadman", memore del Robert Smith di "Disintegration"), tra incredibili chitarre che sembrano tastiere nel crescendo di "Waves", è una fioca luce alla fine del turbine emotivo e abissale in "Primal". Dopo i titoli di coda, una tale opera poteva anche calare il sipario sui Slowdive, ormai la Storia aveva scelto da che parte stare. Seguiranno, invece, "Souvlaki" (1993), "Pygmalion" (1995) e i Mojave 3. Niente avrebbe mai eguagliato la preziosa bellezza di "Just For A Day", che continua a suggestionare quanto il mondo visto da un bambino. Un sogno a occhi aperti. Soltanto di un giorno, eppure infinito. Gli shoegazers avevano sempre lo sguardo basso, immersi nelle onde di un rumore celeste. Questo narra la leggenda. Ma la loro musica volava altissima, oltre l'esosfera.

"..And when it all looks brighter, just turn around and smile.."

 

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