"Sai, volevo emulare l'etica della fratellanza che le band hanno..."

Prima di tutto, le presentazioni: Tyron Kaymone Frampton, in arte Slowthai, classe 94, è un rapper britannico salito alla ribalta con due album, entrambi acclamati da critica e pubblico, ovvero il chiassoso e contaminato revival grime "Nothing Great About Britain", e il più contenuto e introspettivo "Tyron". Il primo più limaccioso e volgare, letteralmente una bomba Pirandelliana, il secondo più indulgente e tenero nel suo cupo esistenzialismo. Anche musicalmente le differenze sono notevoli, tra la kermesse garage che caratterizzano il primo capitolo, e la dicotomia trap/soul che sono invece parte integrante del secondo capitolo.

Una premessa doverosa al fine di individuare quello che è un percorso tortuoso di un artista eclettico, in continuo divenire: "UGLY" ("U Gotta Love Yourself") , terzo episodio di questa minuscola discografia, riprende in parte i flirt occasionali con la scena punk che si manifestavano in alcuni episodi del suo esordio, estendo il discorso.

Uscito lo scorso 3 marzo, nonostante il timido minutaggio, la laconica tracklist e l'assenza di un vero e proprio pop-appeal, l'album fa vanto di un'imponenza pachidermica, grazie ad un nutrito numero di collaboratori (tra i vari, trovano spazio anche i Fontaines D.C.) e ad una commistione di generi ben riuscita. Riassumere la sinergia di una band punk in chiave rap, concentrando in un solo individuo tutto l'operato.

Una riflessione personale da parte del rapper sulla frastagliata e infuocata scena post-punk inglese, che negli ultimi anni ha partorito una nutrita fauna di validi artisti, intepretando a suo modo una parte del contemporaneo.

L'album si presenta così come una gargantuesca manifestazione sononora, chiassosa, fragorosa, ma stranamente ordinata: si rimbalza con estrema fluidità da un genere all'altro, che si tratti delle più caotiche sferzate Ska o del più tenute blues, passando per i richiami ad un certo tipo di alt-rock di fine anni 90, senza mai perdere il filo del discorso e mantenendo un'invidiabile omogeneità e soprattutto un equlibrio magistrale.

Ad essere disordinato invece, è il vivace e coloratissimo rap del padrone di casa: una vera e propria intrigante giungla verbale che, proprio nella sua natura incontrollabile, trova la sua raison d'être. Il tutto filtrato tramite una scrittura abrasiva, ricca di neologismi e commutazioni di codice, forse l'unica vera concessione pop dell'opera, che rifiuta ossessivamente i richiami facilotti da classifica.

Un prodotto dichiaratamente ibrido, che tuttavia non deve ingannare ed essere inquadrato in un banale e confuso passaggio transitorio: la proposta musicale di Slowthai non è mai stata così chiara e concisa come adesso e questo "UGLY" merita di essere valutato per quello che è, ovvero l'ennesimo traguardo di un grande artista.

Imperdibile.

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