Non c'è di più bello di ciò che non è lineare, limpido e che desta sempre interesse, curiosità. Ogni giorno si assume una consapevolezza, una crescita interiore, una sensibilità mentale che si ripercuote nei semplici gesti, nella guida da intraprendere nella vita. Ci si accorge piano piano dei particolari, si rimuovono delle cose e se ne ottengono altre, mentre lentamente si scorge una forma. Questo processo vitale si ripercuote nell'arte, creata dall'umano, il quale però viene ispirato dall'arte creata dalla natura, nettamente più magica. Ma non c'è di più mistico di una novità, di un concepimento assurdo di qualcosa di unico, proprio come avvenne a Canterbury.
E' un panorama che, come tutti quelli degni di essere menzionati, possiede un'atmosfera particolare, un umore crepuscolare, che si collega perfino alle arti visive. Il dadaismo è l'espressione nella quale cade il pensiero Canterburyano, ovvero lo spezzare immagini della corrente pittorica e l'arricchimento dato dal collage lo ritroviamo nella frammentarietà delle composizioni. Quello che trovo nel sound degli Henry Cow, dei Caravan, degli Hatfield & The North e dei Gong più introspettivi è un mood oscuro, industriale, il grigio prettamente inglese e autunnale. Il genere è camaleontico, ha una doppia faccia, come gli stati d'animo dell'uomo, ovvero la rabbia dell'elettronica cupa del Moog e la rarefazione e i timbri eterei. Vi è un sentimento, una malinconia che è quella che influenzerà lo spirito del post punk di Joy Division o Echo & The Bunnymen e del dream pop dei Cocteau. Un malessere dell'anima misto ad alienazione propria dell'ambiente hippy post Woodstock e che consacra Soft Machine & Co. artefici di opere eccelse, pare al progressive più alto.
Il quintetto Canterburyano esordisce nell'importantissimo 1968, fà da spalla ad Hendrix e si fa notare unendo jazz con una psichedelia sgangherata. Originalissimo è il timbro vocale del batterista Robert Wyatt mostro sacro al pari di Byrne, Eno, Gabriel o Fripp. La "Macchina Soffice" inaugura il suo primo LP con il manifesto "Hope For Happiness", dove notiamo subito il falsetto di Wyatt toccare stati di agitazione e stati di trance. Il suo modo di suonare è eccelso, da session man di Miles Davis a dir poco, e il resto della ciurma non è da meno. Imponente ed evidente nel loro sound è anche il basso di Hopper, come nella graziosa 'Joy Of A Toy", che non fa sentire la mancanza della chitarra. (ah, ci fosse stato Hendrix..)
Insomma il primo album è incentrato su un livello di psichedelia di buona fattura, pochi erano arrivati a ciò nel 1968, senza deviare nella cacofonia dei Red Krayola o nel blues più convenzionale. C'è originalità, spensieratezza mista a genio e l'evidenza che si sono aperte le porte per un'era irripetibile, che andrà a influenzare il post rock di Mogwai e Tortoise o il noise dei This Heat e Stereolab. I Soft Machine, dopo "Third", faranno un jazz convenzionale a causa dell'assenza di Wyatt e ad un Holdsworth con troppa tecnica e poca riflessione, mentre per il biondo batterista ci sarà il buio dell'invalidità e la luce delle opere.
In "Soft Machine" non troviamo il jazz dominare sulla psichedelia bensì il contrario, non sono presenti ancora il sax di Dean, il flauto e clarinetto di Hastings e il trombone di Nick Evans, mentre c'è l'unicità di un giovane Kevin Ayers. Realtà tipicamente inglese dimessa, poco egocentrica, un tipo alla Nick Drake o alla Tim Buckley, che purtroppo per troppo tempo è stata una voce senza eco. Qui lo vediamo al basso, ai cori con il suo timbro profondo, al pianoforte e ad arricchire gemme come "We Did It Again" e " Why Are We Sleeping?". Troviamo " So Boot If At All" di sette minuti dove Ratledge e Wyatt iniziano a mettere in mostra la loro personalità, picchiando più di un Ginger Baker o di un Winwood. Si sente comunque sia ancora un minimo di acerbità, che sarà tolta nel collage sonoro di "Volume Two", con sia tratti minimali che bruschi accenti, mentre il miracolo arriverà con "Moon In June".
Il centro del Canterbury Sound è quello del surrealismo, di impressionare, di esprimere la vastità dei travagli della psiche, di accomodare l'immaginazione e di turbare lo stream of consciousness. Emblema di ciò sono i lavori di Wyatt, i quali risentono anche dello sconvolgimento della sua vita dopo la paralisi, e "Living In The Heart Of The Beast" degli Henry Cow.
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