Mi sorpresero, i Soft Machine.

Mi sorpresero quando ancora non capivo un benemerito cavolo di musica ed ero convinto che i Pink Floyd fossero gli unici in grado di potermi dare emozioni attraverso i suoni. Mi sorpresero quando li ascoltai per la prima volta, quando acquistai quel “Jet-Propelled Photographs”, tra i primissimi documenti della loro indiscutibile bravura. Mi commosse la loro storia, le loro vicissitudini tra l’Inghilterra e la Francia in quegli anni così musicalmente e culturalmente fertili. Mi colpì quel tocco morbido di batteria, quell’incedere continuo verso galassie sconosciute, quella voce flebile e sommessa, al tempo stesso ammaliante, quel’incanalarsi in meandri free-jazz senza precedenti, quel poderoso pulsare di basso, quella ricerca sperimentale così ben riuscita.

Iniziai anche io a ricercare, per capire a fondo cosa diavolo stesse accadendo, quale diavolo stesse operando in quel di Canterbury: appresi con immenso piacere che non solo erano amici dei Pink Floyd, ma addirittura di Hendrix; appresi con immenso dispiacere che in quel giugno del ’74 la sfortuna si abbattè su quel geniaccio indiscusso di Robert Wyatt, paralizzandogli le gambe e limitandogli l’uso completo della batteria nonché il suo contributo, seppur maestoso, alla musica di lì a venire.

Tornando agli albori, il nucleo originale dei Soft Machine annoverava tra i più originali musicisti del secolo, tali Daevid Allen, Kevin Ayers, Mike Ratledge e il già citato Wyatt, che idearono una miscela a dir poco perfetta di psichedelia, jazz, surrealismo patafisico, rock e improvvisazione, tralasciando quel filino pop riscontrabile nelle prime incisoni già dal secondo disco, e andandosi a collocare, a detta della critica, tra Zappa e Monk.

Ma si sa, è difficile per tanti artisti convivere in una band senza dispute, e una certa dicotomia interna è già evidente nel “Volume Two”, dove il jazz-rock preso troppo seriamente da Ratledge va quasi a cozzare con lo psicodadaismo di Wyatt; nonostante ciò questo secondo disco si avvicina al capolavoro, restando un gradino inferiore al primo.
Come ovviare a ciò? Come evitare che un progetto così ambizioso fosse rovinato da anime con stimoli così diversi? E qui c’è il colpo di genio! Così come i Pink Floyd sullo Studio Album di Ummagumma, anche i Soft Machine scelgono di affidare una facciata del nuovo disco ad ogni membro, libero così di dar sfogo alla propria creatività.

Nasce così “Third”, superlativo monumento della musica sperimentale e dell’arte tutta del Ventesimo secolo, cigno messaggero di un’alba improvvisa, arcobaleno che fa da cornice a un tramonto d’autunno, cometa rifulgente in cieli sconfinati.

Difficile da concepire, difficile da realizzare, difficile da commentare.

Tre facciate una più bella dell’altra, che lasciano spazio alle più impensate divagazioni cosmiche, sintesi magniloquente del neo jazz “elettrico” di Miles Davis e del minimalismo sperimentale di Terry Riley, con evidenti influenze di Carr e Tippett, la crème del jazz.

In “Facelift” è Hugh Hopper a dare il la, con il suo fuzz-bass e i fiati di Elton Dean in stile free che irrompono dopo circa cinque minuti, insomma si inizia a sclerare nel più puro e astratto free-jazz, senza confini. Apocalittico.

Melodia e ritmo si alternano in “Slightly All The Time”, affidata a Ratledge, dove il tempo accelera e decelera, e dapprima l’assolo di flauto e la rifinitura jazz ai charleston di Wyatt e poi un nuovo tema di sax e basso dimostrano padronanza completa nonché un’oltremodo peculiare ricerca sonora della band.

“Out-bloody-rageous”, sempre ad opera di Ratledge, è una perfetta sintesi del gruppo (sintesi, oddio, stiamo comunque parlando di un brano di 19 minuti!), inizia e si conclude in perfetto stile minimalista, e i fiati sul tessuto sonoro di basso e pianoforte, nonché l’incedere prepotente della batteria di Sir Wyatt, creano un’atmosfera tra le più intense e avvolgenti che una musica abbia mai potuto dare alla psiche umana.

Queste tre opere, concentrate su un unico disco, da sole basterebbero a innalzare i Soft Machine e “Third” in particolare ai vertici della musica moderna, contemporanea e sperimentale, senza nulla invidiare alle opere classiche o al jazz comunemente inteso.
Ma c’è una serpe che il maestro nonché geniaccio nonché sublime Artista nonchè Sir Robert Wyatt covava nel ventre, già dal 1967: voleva essere lui fautore di un opera magna, di qualcosa che potesse rimanere nei canoni dell’arte nei secoli a venire, di qualcosa per la quale sarebbe stato giusto coniare gli aggettivi di SUPERLATIVO, SENSAZIONALE, STRABILIANTE, STRATOSFERICO, SENZA PARAGONI, e tutto ciò che possa iniziare per S: per farla breve, signori, in tre parole: “MOON IN JUNE” !

E qua, credetemi, non c’è nulla di più emozionante, di più completo, di più bellissimo!!!

Nel già citato “Jet-propelled photographs” è possibile sentirne un abbozzo di 2.29 minuti, che già lascia presagire di quale talento inarrivabile sia dotato questo uomo, e per le sue doti di batterista prima e (purtroppo) percussionista poi, e per la sua voce che ti pervade come un ululato, sottile, soft, magica espressione di un’arte concreta e astratta, elogio del caos e della pazzia, essenza dell’ essere e della condizione umana.

Posso sembrarvi ubriaco (e un po’, in effetti, lo sono) ma credetemi, non ho mai ascoltato nulla di simile e di più trascinante, perchè questa musica entra nelle viscere e mi trasporta eterea in tutto lo spazio occupabile dalla mia persona!!!
Diamine, sono 19. 08 minuti di estasi pura, di sconvolgimento totale, di vagheggiamento completo! E’ un’avventura, che c’è di più bello che avventurarsi in zone sconosciute e inimmaginabili?
Robert Wyatt raggiunge così il suo nobilissimo intento, farci viaggiare nel cosmo appresso alla sua improvvisazione, alla sua incredibile capacità di sconvolgerci, al suo guidarci nello stato più bramato dell’animo umano, ossia il rilassarsi fermi, casomai distesi su di un morbido materasso, contemplando il tutto e il nulla, liberi, esaltati, pazzoidi.

Amici, compagni, fratelli, con uno stock original brandy imbottigliato a Trieste e con MOON IN JUNE nel cuore (un attimo che vado in bagno) riuscirete a realizzarvi!
Ecco, se esiste un Big Bang nella musica, questo è Moon In June!

Elenco tracce testi e samples

01   Facelift (18:46)

Instrumental

02   Slightly All the Time (18:13)

Instrumental

03   Moon in June (19:08)

On a dilemma between what I need and what I just want
Between your thighs I feel a sensation
How long can I resist the temptation?
I've got my bird, you've got your man
So who else do we need, really?

Now I'm here, I may as well put my other hand in yours
While we decide how far to go and if we've got time to do it now
And if it's half as good for you as it is for me
Then you won't mind if we lie down for a while, just for a while
Till all the thing I want is need
You are the thing I are, I knew

I want you more than ever now
We're on the floor, and you want more, and I feel almost sure
That cause now we've agreed, that we got what we need
Then all the thing us needs is wanting

I realized when I saw you last
We've been together now and then
From time to time - just here and there
Now I know how it feels from my hair to my heels
To have you haunt the horns of my dilemma
- Oh! Wait a minute! -

Over - Up - Over - Up - ... Down
Down - Over - Up - Over - ... Up

Living can be lovely, here in New York State
Ah, but I wish that I were home
And I wish I were home again - back home again, home again

There are places and people that I'm so glad to have seen
Ah, but I miss the trees, and I wish that I were home again
Back home again

The sun shines here all summer
Its nice cause you can get quite brown
Ah, but I miss the rain - ticky tacky ticky
And I wish that I were home again - home again, home again...

Living is easy here in New York State
Ah, but I wish that I were home again
Back in West Dulwich again

Just before we go on to the next part of our song
Let's all make sure we've got the time
Music-making still performs the normal functions -
background noise for people scheming, seducing, revolting and teaching
That's all right by me, don't think that I'm complaining
After all, it's only leisure time, isn't it?

Now I love your eyes - see how the time flies
She's learning to hate, but it's just too late for me
It was the same with her love
It just wasn't enough for me
But before this feeling dies
Remember how distance can tell lies!

You can almost see her eyes, is it me she despises or you?
You're awfully nice to me and I'm sure you can see what her game is
She sees you in her place, just as if it's a race
And you're winning, and you're winning
She just can't undertsand that for me everything's just beginning
Until I get more homesick
So before this feeling dies, remember how distance tells us lies...

04   Out-Bloody-Rageous (19:14)

Instrumental

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Altre recensioni

Di  Velvetunderground1

 Il mio amico aveva qualcosa con la parola Machine, ma dei Soft Machine non sapeva un bel niente.

 Ai grandi non serve la pubblicità! Non servono i soldi! Serve soltanto scoprire il loro percorso del 'chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo'.


Di  tazzoidecompose

 Il sound del disco è molto corposo e pieno e non da mai l'idea del distacco tra suono e ascoltatore anzi, il contrario, è come se l'ascoltatore fosse dentro la musica.

 Chissà gli ascoltatori dell'epoca cosa avranno pensato ascoltando questa prima traccia.