Qual'è il disco più bello dei Soft Machine?

Third alla quasi unanimità, OK sono d'accordo. Solo un gradino più sotto, però, colloco quel manifesto-summa del Jazz-Prog di Canterbury che risponde al nome di Volume 2. L'album si struttura come una lunga suite ispirata alla Patafisica, la scienza che si propone di trovare soluzioni a problemi immaginari. Vera gemma nel forziere è da considerarsi la splendida "Hibou Anemone and Bear", fresca e geniale, sostenuta dall'organo di Ratledge non ancora debordante come nelle opere successive, innervata dal drumming originalissimo di Wyatt. Le acrobazie vocali di quest'ultimo, che troveranno il loro apogeo in "Moon In June" su Third, costituiscono qui il tema base dell'intero album; divertissements sempre sostenuti da grande tecnica musicale e geniale inventiva.

Certo, un simile equilibrio psycho-pop-dadaista non nasce certo ex abrupto ma è adeguatamente preparato dal pop surreale e solo un poco meno rivoluzionario del predecessore Volume 1, anno 1968. A caratterizzare il sound di quest’ ultimo c’era la vena melodica e deliziosamente morbida del dandy-freak Kevin Ayers, che lascerà il posto al ben più serioso (ma altrettanto geniale) Hugh Hopper. Il risultato? Il sound si approfondisce ed acquisisce spessore, tendendo ad una deriva Jazz che sarà palese in "Third" e più ancora negli album successivi. Era il 1969: se "In the Court of the Crimson King" costituiva l'introduzione al Progressive tutto, Volume 2 dei Soft Machine rappresenta la premessa indispensabile del Jazz-Prog di Canterbury, forse il sottogenere più interessante del grande calderone "romantico".

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