Racconto' in un'intervista di qualche mese fa che questo disco era il coronamento di un sogno. Disse di aver sempre amato la musica country e di aver esordito con un brano ("just out of reach of my open arms") che era - di fatto - una canzone country. Ma quanti sogni puo' ancora permettersi di realizzare un Mito come Solomon Burke? E come mai solo ora - in un'epoca di insolite e acclamate resurrezioni - decide di realizzare quest'album?

Certo, ormai questo Signore imponente come la sua gloriosa carriera puo' permettersi davvero di tutto: nel 2004, quando ben pochi avrebbero scommesso su un ritorno a livelli tanto alti, incanto' pubblico e critica con un album straordinario come "Don't give up to me", ed ora sembra davvero rinascere per sempre, all'età di 66 anni.

Il country non è esattamente un genere facile come molti possono credere: abbinato - spesso ingiustamente - alle risse da pub, alle melensaggini piu' retrive, a una forma "traditionalist" nel senso piu' ampio del termine, spesso ingiustamente sottovalutato dagli appassionati di musica che non credono nelle sue possibilità, che non ne colgono (vuoi per formazione musicale diversa vuoi per la nostra collocazione geografica) la forza lirica.

Se negli ultimi due decenni abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione del genere (potremmo definirla cinematograficamente una Nouvelle Vague musicale) del genere, con artisti come Smog, Palace o le mutazioni dello stesso Will Oldham in Bronco Prince Billy, i Songs: Ohia e via dicendo, è altrettanto certo che il successo di un album bellissimo come l'omaggio di Springsteen a un artista tradizionale come Peter Seeger ("We shall overcome") dovrebbe far riflettere. Certo, viviamo in un periodo schizofrenico per la musica, in cui la crisi imperante del mercato è antitetica alla produzione stakanovista di questi ultimi anni, ed è difficile stilare una graduatoria di fine anno, figuriamoci trovare un'orientamento musicale o un revival collocabile in una vera e propria scena musicale...

"Nashville" è un disco che lascia sbigottiti per la sua onestà, e decisamente non sarebbe stato lecito, di fronte a un Burke in gran forma, aspettarsi di meno. Al Tempio Probito ("proibito" per un afroamericano) della musica popolare tradizionalista e "bianca" Burke segue le orme dell'amico scomparso Ray Charles, anch'esso piu' volte affascinato dal country. Strette all'evento, quasi in soggezione, si danno appuntamento Dolly Parton (che duetta con Burke nella splendida "Tomorrow is forever") e Emmylou Harris ("we're gonna hold on"), ovvero due delle piu' grandi Icone country di sempre, e ancora Patty Loveless, Patty Griffin e Gilliam Welch.

E' una festa di suoni che coinvolge la "ain't got you" già hit di Springsteen, e "intro" del sottovalutato "Tunnel of love" (1987), ma è una vera e propria stretta al cuore quella che coinvolge Burke e la sua voce straordinaria in ballate come "Valley of tears" , "Atta way to go", "Up to the mountain" (forse il capolavoro dell'album) o "Till I get it right" che molti, forse non a torto, hanno paragonato alla primissima produzione di Tom Waits. Mi piace pensare che si possa riscoprire la tradizione con la voce superba di questo "clandestino" che personalizza, rilegge, e appassionatamente rende questo mondo un po' anche "suo".

Tutte emozioni che dobbiamo a un'uomo di 66 anni, che è persino retorico rapportare alla la mancanza cronica di feeling di tanti recenti ed effimeri fenomeni giovanili. Produce il tutto Buddy Miller, uno dei piu' celebrati produttori del genere.

A new kid (?) in town.

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