"Down On The Upside" a bocce ferme, anzi fermissime.

Ora che gli '00 sono in procinto di concludersi e mi guardo indietro piuttosto che avanti, le uscite classicamente rock, di quello che si bagnano esclusivamente entro i propri lidi, fanno pensare che sia tempo di magra.

Ed ecco che dopo anni di ascolti costanti del capolavoro (senza enfasi alcuna) "Superunknown" ti scopro il suo successore, il mio attuale disco rifugio, un rimando ai suoni e ai sapori musicali che furono. Chiamatelo pure invecchiamento precoce, ma necessito di poco altro per occupare le mie giornate musicalmente, mi basta infilare nel lettore questo dischetto blu coi faccioni dei membri del gruppo, e sedermi sulla vecchia e comoda poltrona dei suoni che furono.

I suoni: che belli questi suoni qua. Pastosi, curati, ovattati, sono la miglior veste possibile per un rock multiforme, a partire da una batteria d'annata (Matt Cameron, ora in forza ai Pearl Jam), per arrivare alle chitarre dagli aromi psichedelici del bravo e spesso sottovalutato Kim Thayil, passando per il basso dal suono valvolare di Ben Sheperd che è un continuo strizzare l'occhio ai seventies. La voce di Chris Cornell prosegue quella ricercatezza che aveva caratterizzato "Superunknown", donando varietà ai pezzi ora accarezzando, ora graffiando, mantenendo sempre il timbro che lo rende riconoscibilissimo tra mille.

Insomma, a fronte di un 2008 che ci propone (o ci propina) monolitiche schitarrate che gigioneggiano nella staticità assoluta e che citano il passato senza avvicinarvisi lontanamente, (e qui tutte le mie dita puntate contro la recente uscita dei Black Mountain) preferisco trincerarmi in un'uscita che dodici anni fa fu considerata, a torto o a ragione, poco rilevante.

A dire il vero, questa è la sorte che tocca a quei dischi su cui grava opprimente l'ombra monolitica di un recentissimo (e glorioso) passato, e gli esempi sono innumerevoli: "In The Wake Of Poseidon" dei King Crimson, il terzo dei Led Zeppelin, l'omonimo dei Portishead, "Henry's Dream" di Nick Cave o "Ege Bamyasi" dei Can per citare giusto i primi che mi vengono in mente. Le aspettative divengono spesso insostenibili, e ciò che ne scaturisce deve avere come condizione necessaria l'essere deludente, in molti casi senza il dovuto e necessario approfondimento.

Nel caso di questo "Down On The Upside", che fu tacciato di eccessivo imbolsimento dopo il già consistente ammorbidimento del predecessore, dando l'impressione non del tutto corretta di definitiva svendita del gruppo alla macchina dello Show Biz, al melodismo privo di mordente.

Come già precedentemente sottolineato il maggior pregio del disco è la varietà, che è anche il segno della maggior distanza possibile dall'irruenza di "Badmotorfinger"; ora il gruppo si muove tra controtempi arzigogolati intelaiati su una buona dose di melodia, ("Zero Chance", "Overfloater") bilanciati da brevi incursioni nel territorio dell'hard rock più veloce e trascinante ("Never Named") e la magniloquenza di pezzi dichiaratamente anthemici. ("Burden In My Hand", "Pretty Noose")

Non tutto quel che c'è sul piatto è succulento, ed ecco che la volontà di strafare genera ad episodi privi di mordente come la scimiottatura del post rock di "Applebite" o l'improbabile shred su banjo di "Ty Cobb", e a dirla tutta i pezzi sono decisamente mal posti in scaletta, generando lunghi momenti di noia poi improvvisamente spezzati dagli episodi migliori. (tra tutti, forse, "Never The Machine Forever")

In conclusione il voto non lo metto, perchè non voglio rivalutare un bel niente, una cosa non è bella o brutta in relazione a come se ne parla, ma sulla base di questo e quel fattore sapientemente sposato con gusto ed ispirazione: tiratelo magari fuori dal cassetto, ecco, e prestateci ascolto.

Magari come me lo scoprirete con poche rughe ad irrigidirne i lineamenti, che sono ancora freschi e giovani, magari lo rilegherete a quel "grunge" che pressapoco in quel periodo andava incontro al suo grande freddo.

Io nel frattempo premo nuovamente play, riparte "Pretty Noose" e sorridendo non ci penso più.

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