Il texano Stephen Stills è da sempre il mio preferito dell’ormai defunto quartetto sovrannazionale condiviso col californiano Crosby, l’inglese Nash ed il canadese Young. A mio gusto, considerandoli in ordine di gradimento, il loro acronimo lo riscriverei volentieri in SCY&N.

E della quindicina di dischi solisti del nostro senza compartecipazione di nessuno degli altri tre (compresi perciò, oltre ai lavori direttamente a suo nome, la “Supersession” sessantiana, i due contributi sotto il monicker Manassas, gli altri due più recenti a nome Rides e pure quello con l’ex morosa Judy Collins), questo è il migliore.

Il menù è vario come al solito, Stills in questo è sempre stato una garanzia. Si va dal country al rhythm&blues, dal rock alla salsa, dal reggae al blues. Vi sono episodi con la sola chitarra acustica ad accompagnare, altri all’opposto con una ricca e sonora sezione di fiati, oppure chitarre distorte e lancinanti. Vi transitano ospiti illustri (Eric Clapton, Jerry Garcia, Billy Preston…) ma il canto “fangoso” e la chitarra molto personale del titolare, che sia acustica od elettrica, svettano con personalità.

L’atmosfera dell’album è particolare: fa trasparire il momento disordinato della vita del cantante, chitarrista ed autore di Dallas, fuori di testa come suo costume per la fine dell’ennesima avventura amorosa (colla collega Rita Coolidge, per la cronaca), dedito perciò alla bottiglia e ad impasticcamenti poco salutistici.

Il suo disagio di uomo instabile ed estremamente passionale si maschera in una super produttività che lo porta ad iniziare i lavori per quest’album mentre l’opera precedente, l’esordio da solista “Stephen Stills”, a malapena aveva raggiunto i negozi. L’urgenza è tanta, la voglia di riversare sulle liriche quello che gli passa per la testa costringe se stesso e i suoi collaboratori ad interminabili notti in bianco, passate sepolti dentro uno studio della Florida, lontano dal casino di Los Angeles, dalle donne perniciose e dagli amici tossici.

Il disco è perciò sanguigno, acceso, quasi violento se si tengono come parametro le pettinate produzioni californiane, sempre impeccabili ma spesso e volentieri un tantino vellutate e innocue. In quest’opera il senso di impellenza, di sfogo irrora le musiche ed anche il sound, gonfio di bassi e di “fondo” rock come non si sentirà più nei dischi di Stills. Botte da orbi come su “Relaxing Town”, o nel crescendo impetuoso di “Fishes and Scorpions”, son degne di ben altre culture rock rispetto a quella più tipica dell’adottiva, serafica California e qui vien fuori l’anima “sudista” del buon Stephen, sicuramente lontana dai gusti psichedelici, fumati e hippy dei suoi amici e colleghi di San Francisco ed L.A.

E’ per questo che tengo questa seconda opera solista di Stills sopra tutte le sue altre. Ottime canzoni oltre a quelle già nominate sono l’iniziale “Change Partners” singolo di discreto successo, il poderoso rhythm&blues “Sugar Baby”, la fiatistica e quasi gospel “Open Secret”che si prolunga con uno sgangherato assolo di piano su percussioni, sicuramente opera dello stesso (stonato) Stills, l’intimista “Singin’ Call”, la concessione all’ancora recente passato “Bluebird Revisited”.

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