Ci sono tante strade per essere etichettati ribelli nel mondo della musica rock, a volte basta roteare una chitarra e sbatterla al suolo fino a ridurla in mille pezzi, in altri casi c'è chi dichiara le sue simpatie per il diavolo ma poi manda i figli a scuola nei migliori college del mondo. In qualche altra occasione bisogna andare un po' più oltre, magari chiamando vecchio fottuto bastardo il conduttore della trasmissione più seguita in televisione... salvo approdarci trent'anni dopo come protagonista di un reality show! Insomma avete capito che siamo sempre alla ricerca di chi trasgredisce al posto nostro per poi ritrovarci con la solita delusione di chi si è fatto infinocchiare per l'ennesima volta dal furbone di turno.

Nessuno di voi penserebbe che questo signore ormai sulla cinquantina, visibilmente soprappeso e con i denti ormai andati , che spesso si ostina anacronisticamente a portare un cappellaccio da cowboy, potrebbe essere l'eroe ribelle che andiamo disperatamente cercando da quando abbiamo capito che la musica è la nostra passione. E soprattutto dopo aver ascoltato questo disco del 1995, interamente acustico (vogliamo essere alla moda e dire unplugged?), registrato in presa diretta e senza sovraincisioni in compagnia di quattro musicisti che definire fuoriclasse è riduttivo. Come può un disco che lambisce il country e il bluegrass essere opera di un "maledetto"? Perché Steve è senza alcun dubbio un maledetto, a quattordici anni terrorizza i compagni di scuola con un fucile a canne mozze, scappa da casa e girovaga cantando nelle coffee houses per pochi spiccioli, a diciannove si sposa (la prima di sei mogli!) e poi si mette a fare il busker suonando per le strade di Nashville, trovando ogni tanto un lavoro che finisce puntualmente in scazzottate.

Nonostante tutto e tutti, Steve è bravo e nel 1985 riesce a trovare un contratto discografico che lui ripaga con il successo internazionale di "Guitar Town", denso di uno stile da country rocker come mostrato da Springsteen e John Mellencamp, e così comincia il suo periodo fortunato costellato da bellissimi dischi fino al 1991, con le sue canzoni di magnifico perdente che si batte contro le ingiustizie, le prevaricazioni, la guerra.

Ma Earle è un ribelle vero e non iscrive i figli al miglior college, questo mondo non gli piace e non glielo manda a dire a nessuno, istituzioni comprese. La stampa perbenista lo affonda e lui si attacca alla siringa, prende a pugni un poliziotto e si fa undici mesi e ventinove giorni di carcere. Quando esce da galera trova il suo vecchio amore di sempre: la musica e il contratto con una piccola etichetta indie per registrare questo splendido "Train a Comin". E la dolcezza di questo disco è simile a quegli unguenti usati per lenire il dolore delle piaghe sparse per il corpo, come quello di Nick Mano Fredda (a proposito di ribelli...ricordate quel film con Paul Newman?) che ha bisogno di riposare prima di tentare la prossima inutile fuga per affermare la propria individualità. La maestria alle chitarre, dobro e mandolino di Norman Blake (session man per Johnny Cash, Dylan, Baez, Kristofferson) e Peter Rowan, nonchè la voce di Emmylou Harris, fanno miracoli e il nostro eroe torna alle sue origini, presentando canzoni scritte tra il 1974 e il 1995 e mai pubblicate prima.

Potrei descrivere ogni brano perché sono tutti di una bellezza cristallina impressionante, ma basta citare l'incedere sbuffante degli strumenti a corda di "Mistery Train part II"; la dura ballata "Tom Ames' Prayer"sostenuta dal basso acustico di Ron Huskey e dal mandolino di Rowan con Earle che snocciola la storia da lui scritta quando nel '75 si infilò nel dormitorio delle ragazze del Lon Morris College di Jacksonville; il grande lavoro alla steel guitar di Norman Blake che rende unica "Hometown Blues" scritta nel ‘77 quando tornò a casa e nessuno si ricordava di lui tranne i poliziotti; la stupenda "Nothin' without you" con la dolce voce di Emmylou Harris che doppia quella nasale di Steve; la rilettura allegra di "I'm looking through you" dei Beatles rifatta con voci, chitarra, dobro, mandolino e basso senza bisogno di nessun spinotto da attaccare agli strumenti; addirittura il reggae-hillybilly di "TheRivers of Babylon" eseguita coralmente come avrebbero fatto dei soldati giamaicani se fossero stati arruolati nell'esercito nordista durante la guerra civile. Proprio alla fine del disco Steve ci regala l'interpretazione di "Tecumseh Valley"del suo maestro di vita Townes Van Zandt, che è un pessimo modello da imitare, con la steel guitar proprio dietro la voce che ancora una volta sussurra con decisione la tragica storia di Carolyne trovata morta sulle scale del locale dove si prostituiva per poter tornare a casa.

E negli anni successivi il nostro ribelle non ci deluderà, con altri ottimi dischi da roots rocker e con lo strenuo impegno politico contro la pena di morte e contro l'ottusa ignoranza della opinione pubblica americana delle ragioni della fede islamica, culminato con quel "John Walker's Blues" dedicato al giovane statunitense trovato a combattere in Iraq con le forze talebane.

Mi fanno ridere i "ribelli" che vanno a registrare gli unplugged a MTV, a me basta Steve Earle.

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