"Mad Messiah" (secondo ed ultimo atto della breve carriera solista di Steve Sylvester) non è peggio del suo predecessore "Free Man". Anzi, sotto certi aspetti (suoni ed arrangiamenti) ne rappresenta la naturale evoluzione, imponendosi come un prodotto maggiormente consapevole e meglio confezionato. Viene meno, tuttavia, quell'effetto sorpresa che si portava dietro un album che era il frutto, dopo tanto tempo, della collaborazione fra l’ugola storica dei Death SS e il mitico Paul Chain, che come tutti sanno lasciò la band nel giurassico 1984.

Un idillio che è durato poco: sospesi i lavori per l'ennesima e definitiva litigata fra i due, l'uscita dell'album verrà posticipata all’anno 1998 (sebbene molto del materiale fosse già pronto da tempo), all'indomani della pubblicazione dell'allora ultima prova da studio dei Death SS "Do What You Wilt".

Stilisticamente anche "Mad Messiah" risponde alle caratteristiche del Sylvester solista, che sveste i panni del Vampirello per tornare bambino e compiere un viaggio a ritroso nel tempo diretto verso le sue passioni di gioventù: quindi tanto hard-rock, staffilate doom (inevitabili, visto lo zampone del Catena) e sprazzi di oscuro progressive, il tutto rigorosamente saettante dall'universo dei fantastici anni settanta. E con la solita manciata di cover da intenditore (in questo caso: 1) "Dying World" dei mai-sentiti-nominare Sturm; 2) "The Shapes of Things to Come", riesumata dalla colonna sonora di "Wild In The Streets", film cult degli anni sessanta; 3) "Heaven on Their Minds", tratta invece dal musical "Jesus Christ Superstar", episodi che rimarcano l'amore del Silvestri per l'underground, musicale e cinematografico, e per la controcultura in generale, preferibilmente se scaraventata contro i cliché della società benpensante).

Insomma, fra estetica jodorowskyana e genuina sfacciataggine glam, due dimensioni ben rappresentate dal contrasto fra l’immagine di copertina (un Steve Sylvester in versione santone che sembra uscito fuori da una pellicola come “La Montagna Sacra”) e quella nel retro (che lo ritrae invece come mamma l’ha fatto tamarramente a cavalcioni di una motocicletta), ci troviamo in tutto e per tutto innanzi alla logica prosecuzione di "Free Man": se quello vi piacque, questo vi piacerà altrettanto.

Anche se, aggiungiamo noi, non avrebbe guastato all’operazione una maggiore audacia: il sound voluto dal cantante pesarese, affiancato dalle chitarre del Catena e di Alberto Simonini (per chi non lo sapesse, l'ascia storica dei nostrani Crying Steel), e con alle spalle una schiera di loschi figuri, molti dei quali pescati dalle fila dei Death SS (Tommy Chaste, Claud Galley, Ross Lukather, Freddy Delirio, Felix Moon ecc), il sound del Folle Messia, si diceva, è potente e messo insieme con professionalità, ma non osa andare oltre i confini di un tronfio baccanale dalle tinte revivalistiche (non un male in sé, in quanto molto dei suo fascino risiede proprio nel suonare squisitamente vintage). Peccato perché da un artista istrionico come il Silvestri è lecito aspettarsi sempre quel guizzo fuori dal comune, il colpaccio che ti fa drizzare i peli del culo.

Più omogeneo del suo predecessore, "Mad Messiah" si articola in nove pezzi per un totale di quarantadue minuti, dove l'esiguità della durata dei brani (a parte tre casi in cui si superano i cinque minuti - ma senza mai varcare i sette che a mio parere sono il minimo per meritare l’appellativo di "brano lungo") è sintomatica della natura generalmente non complessa delle composizioni. Fanno (gradevole) eccezione la seconda traccia "Dying World" (divisa fra tetri arpeggi, bordate elettriche, toste ripartenze e spumeggianti fughe di organo) e “Heaven on their Minds” (forte di un dinamismo che è tipico delle coordinate musical entro le quali si sviluppa).

Gli altri brani, a partire dalla granitica opener “Sons of War” (aperta da sirene che sono un programma – qualcuno ha detto “War Pigs”?) per finire con l’assolo fiume e i gorgheggi femminili (tutto – decisamente – molto “Sympathy for the Devil”) della conclusiva “Speed of Life”, si reggono in piedi, senza tanti sussulti, grazie all’estro ed al mestiere di musicisti scafati, fra cui spicca ovviamente la mano (riconoscibilissima) del Catena (bella la partenza hendrixiana della title-track, travolgente la cadenza “molto-Horrible-Eyes” di “Armageddon Days”). Ma anche Simonini si difende bene, mettendo a segno uno dei colpi vincenti dell’album, ossia quella “Ancient Dreams” che, fra calate doom e torbido organo da cripta, rimane il momento più vicino all’immaginario della band madre. Ovvio che al centro di tutto svetta il carisma sgraziato e disturbante di Steve Sylvester che a questo giro decide di sacrificare la sua componente più teatrale ed iconoclasta, per affidarsi senza remore ad un approccio più classico, tributario dei suoi idoli di sempre (Alice Cooper e Marc Bolan su tutti).

Inutile aggiungere che si tratta di un acquisto obbligatorio per gli estimatori di Death SS, Paul Chain e tutto quel baraccone sensazionale che fra ottanta e novanta ha rappresentato la New Wave of Italian Heavy Metal!

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