A farne un grande film (l'ultimo di Spielberg, al momento) basterebbero gli ultimi cinque minuti: il giovane Steven è alla CBS dove è stato appena messo sotto contratto per realizzare la regia di un prodotto televisivo di cui si sa poco (ma di cui si saprà molto, trattasi del Tenente Colombo), qui, casualmente, viene a contatto con l'ormai ottuagenario John Ford (il quale passerà a miglior vita pochi mesi più in là), suo mito da sempre. Mi piace ricordare che John Ford lo interpreta David Lynch, sia gloria all'anima sua. Il vecchio Ford impartisce al giovane Steven una lezione di prospettiva e comunicazione, utilizzando come metafora la linea d'orizzonte. Cinque minuti che sono tra i vertici del pensiero, e dunque del cinema, spielberghiano.

Il film della vita, quello che avresti voluto fare da sempre, ma farlo a 75 anni non ha prezzo, perchè ne hai passate e viste tante. "The Fabelmans" è la storia di Spielberg, la sua autobiografia. Cambia i nomi (Sammy/Steven; Fabelmans/Spielberg) ma il succo è quello. Dalla visione de "Il più grande spettacolo del mondo" (1952) di Cecil B. De Mille (che vanta anche un remake italiano, "Il più comico spettacolo del mondo", 1953, con Totò prim'attore) le cose non saranno più le stesse per il giovane Sammy, figlio di un padre tanto geniale quanto assente e una madre con evidenti segni di follia. Studia ma il cinema non lo molla, e s'ingegna, con gli amici di scuola, a dirigere e montare piccoli filmini amatoriali di genere western. Poi cresce e va al college, qui vive sulla propria pelle l'antisemitismo, ma s'innamora di una ragazza oltranzista religiosa, fino al giorno in cui gli viene comunicata la notizia che da tempo aspettava: la convocazione alla CBS. In mezzo un mucchio di accadimenti: la scoperta, attraverso un microfilm, del tradimento della madre; la separazione dei genitori; le botte al college.

L'idea ha almeno 25 anni sulle spalle. Spielberg pensa ad un film sulla propria vita già dal 1999, ma il rischio dell'autocelebrazione è dietro l'angolo e si deve fare di tutto per scansarlo. Titolo pensato subito: "I'll Be Home". Oltretutto Spielberg si pone dei dubbi, esplicitati anni dopo in un'intervista:

"La mia grande paura è che a mia mamma e papà non piacerà e penseranno che sia un insulto e non condivideranno il mio punto di vista amorevole ma critico su com'è stato crescere con loro".

L'idea ritorna nel 2002, ma subito viene stoppata, e si vira su "Prova a prendermi" e altri progetti che diventeranno poi "La guerra dei mondi" e "Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo" (non proprio, gli ultimi due, tra i suoi capolavori conclamati), fino a che, nel 2021, l'idea prende corpo. Tutto casualmente, vuoi anche per gli ultimi film girati, "Ready Player One" (2017) e, soprattutto, "The Post" (2017), opere a cui il regista teneva parecchio ma rivelatesi modeste al box-office. Fino al flop (a mio avviso, immeritato) del remake di "West Side Story" (2021). Completato il cast, ci si mette all'opera.

Il film è un grande film, è cinema fatto in modo impeccabile (o quasi) da un regista che utilizza le tecniche cinematografiche al meglio della propria espressività. Lodevole il fatto di farci entrare fin da subito nel mondo dei Fabelmans, coi loro riti ebraici e la tradizione messa, più o meno, al primo posto. Il film, che non si risolve in una banale autocelebrazione, è un mosaico di scene madri, finita una ne inizia subito un'altra, tutte filtrate attraverso l'occhio della telecamera. Sammy vede tutto da lì, la sua vita è intersecata maniacalmente ad un obiettivo, come se tra la realtà e la finzione ci fosse un filtro in grado di unire entrambe le cose. Va detto, inoltre, che l'opera dura parecchio (151') senza che la noia pervada mai lo spettatore: la tensione è sempre altissima, ogni macro sequenza contiene spunti di narrazione variamente interessanti (l'intero segmento del college è un sofisticato mix di risate e dramma) e, anche laddove si tende forzatamente all'epica (la madre che balla seminuda al campeggio di notte) è esente ogni forma di retorica, cosa che, in taluni casi, occorreva spesso nel mondo di Spielberg. Forse alcuni passaggi sono fumosi (l'intervento enfatico, e alla lunga inutile, dello zio Boris), dalla sua ha, invero, un cast formidabile, Michelle Williams e Paul Dano su tutti.

Le musiche del sempiterno John Williams sono una garanzia così come la splendida fotografia pastellata dell'inossidabile Janusz Kamiński, che si esalta soprattutto nelle sequenze dell'infanzia di Sammy (gli anni '50). L'uomo delle favole ha, di nuovo, fatto centro, e stavolta raccontandosi in prima persona, senza nascondere nulla, nemmeno edulcorando le disfunzioni mentali della madre, o l'egoismo paterno volto più al proprio orizzonte professionale che all'amore familiare.

Box-office soddisfatto? No. Se in Italia si è difeso egregiamente (pagando l'ottima uscita natalizia), il resto del mondo, USA in particolare, ha voltato le spalle, ancora, a Spielberg, Re Mida un po' consunto. Variety è senza pietà, ma è cronaca:"un risultato deludente per un film da 40 milioni di dollari, specialmente per un film del regista di maggior successo del suo tempo". Critici divisi, ma tendenti alla sufficienza, e vabbè, oggi va così. Mala tempora currunt, ora ne fa le spese anche Spielberg. Io però penso che "The Fabelmans" sia cinema di fattura pregevole. Davide Stanzione (Best Movie) ne sa:

"The Fabelmans è prodigioso: l’autobiografia di celluloide di Steven Spielberg è un raggiungimento della maggiore età miracoloso per limpidezza e commozione, con l’amore per il cinema chiamato a stemperare con dolcezza tutta la rabbia e i rimpianti, a incantare a ripetizione, a dare un senso e a plasmare nella luce del Mito sogni e affetti familiari, a bagnare ogni cosa di lacrime"

Clap clap.

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