Niente da dire, Spielberg è una sicurezza. Ma in questo caso mi sembra quanto mai necessario distinguere tra una grande storia vera e una trasposizione cinematografica che grande non può dirsi. Solido, chiaro, nitido, ben scandito, ma non grande. Una versione troppo poco ambiziosa del cinema spielberghiano, troppo didascalica, quasi una lezioncina di libertà rivolta al resto del mondo: “Guardare come siamo liberi in America!”.

Che poi è anche giusto, e fare confronti con la situazione italiana, anche odierna, fa venir voglia di piangere. È proprio l'impostazione generale del film che mi pare troppo tranchant, imperniata su alcuni dissidi macroscopici in cui la distinzione tra bene e male è sempre netta. Ecco, la figura di Nixon, trasformata in villain puro, è esemplificativa della scarsa propensione di questo film a sondare le sfumature.

Eppure alla sceneggiatura c'è Josh Singer, coautore de Il caso Spotlight. Ecco, quel gigante del cinema sul giornalismo non aiuta di certo le pellicole che sono venute dopo. Troppo bello, troppo ricco di sfumature, dettagli e finezze per essere anche solo eguagliato.

Spielberg fa il compitino, va sul sicuro con gli attori, dando l'impressione di un complessivo già visto. Meryl Streep, Tom Hanks, bravi, perfetti, ma la sensazione è proprio quella di un cinema che se la suona e se la canta, di un cinema politico ma per modo di dire, che parla di cose scottanti quando ormai sono lontanissime e non interessano più a nessuno (sì, sto ripensando all'ultimo Clint, che fa il contrario).

Credo che un film di questo tipo non abbia una vera incisività, è pura agiografia di quei “grandi e coraggiosi giornalisti che ebbero il coraggio di...”. Mancando un vero contraddittorio, raffigurando il governo come il male, la questione viene posta su un livello che non è tanto diverso dal cinema d'avventura, supereroistico. Ci sono i paladini del bene e le forze oscure governative.

I nodi problematici, come il rischio di subire ripercussioni finanziarie e l'andare contro ad amici di vecchia data, vengono riproposte svariate volte, quasi fino alla ridondanza. Sono sicuramente il lato più interessante dell'opera, ma la narrazione risulta un po' didascalica e ripetitiva. La problematicità lascia ben presto spazio al crescendo trionfalistico del Washington Post, con tanto di musiche celebrative del vecchio John Williams.

Eppure, alla fine resta qualcosa, resta un grande tributo al giornalismo, anche ai suoi meccanismi pratici d'una volta, ormai superati, al suo essere sempre in bilico tra la volontà di pubblicare le più scottanti notizie e la paura che per questo si verrà messi sulla graticola. Nelle scelte di un editore insicuro si concentra tutta l'essenza del fare giornalismo, dell'essere scomodi anche quando questo significa mettere i bastoni tra le ruote a degli amici. Una grande storia appunto, per un film purtroppo non altrettanto grande.

6.5/10

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