“Mi chiedo come reagirà la gente a vedere una band formata da tutti i componenti di colore e un leader bianco”. (Sting gennaio 1985) 

La data del 4 marzo 1984 tenuta allo Showgrounds di Melbourne (Australia), passerà alla storia per l’ultimo appuntamento dal vivo dei The Police che chiuderanno la tournée di “Synchronicity”. Infatti il giorno dopo, Sting farà ritorno in Gran Bretagna, Stewart (Copeland) prenderà un volo per Tahiti mentre Andy (Summers) si dirigerà in Sri Lanka.

Le potenzialità dei tre musicisti hanno confermato con gli anni le possibilità di carriera al di fuori del gruppo facendosi coinvolgere in collaborazioni, colonne sonore ed album di altri artisti, senza mai solcare la strada della fuga da un progetto musicale per cui l’impegno massimo era sempre stato dato da tutti. Già nella primavera del 1984 Andy era pienamente preso dalla promozione di “Bewitched” (A&M, 1984) progettata e partorita insieme all’instancabile Robert Fripp. L’indomito Stewart si prepara a realizzare il desiderio di scoperta dell’Africa che lo porterà alla pubblicazione di “The Rhytmatist”. Un lavoro quest’ultimo mette in luce la ricerca del drummer per il suo continuo arricchimento stilistico che trova piena condivisione ed apprezzamento tra fan ed addetti ai lavori. La predilezione di Sting versa per la recitazione che lo impegna per “The Bride” al fianco della poco più che ventenne Jennifer Beals reduce dal successo di “Flashdance”.

Musicalmente, e la storia dei Police ce lo ha insegnato, il bassista non ha mai amato cullarsi sugli allori per via di una personale tendenza verso un’inarrestabile ricerca artistica che lo ha sempre condotto ad una indagine del nuovo che ha sempre confermato la validità del suo intuito musicale. Una profonda autostima che ha portato il pungiglione ad agire provando ad evolvere ulteriormente la propria scrittura che in quella sicurezza rappresentata dalla band con Summers e Copeland, non avrebbe mai potuto trovare appieno espressione.

Sting ricorre all’aiuto dell’amico giornalista Vic Gabbarrini per la scelta dei musicisti da coinvolgere in un nuovo progetto distante dal mondo del rock e che familiarizza con il jazz. Branford Marsalis (sassofono e percussioni) insieme al bassista Darryl Jones (già con Miles Davis) sono i primi ad aderire, mentre dietro le pelli viene scelto il versatile Omar Hakim (dal 1983 nei Weather Report) conosciuto durante una cena con Mark Knopfler dei Dire Straits a Montserrat mentre si svolgevano le sedute di “Brothers In Arms”. A chiudere il cerchio arriva Kenny Kirkland (contemporaneamente al servizio del violinista polacco Michal Urbaniak e del contrabbassista Miroslav Vitous) in grado di far scivolare le mani su di una tastiera con eleganza ed un manierismo che tanto piacciono al leader.

L’introduzione a questo nuovo percorso artistico è presentato da “If You Love Somebody Set Them Free”, in cui l’iniziale coro di stampo prettamente soul viene beatamente a fondersi con quegli elementi jazz che hanno caratterizzato gli esordi di Sting al seguito dei Last Exit. Un insieme di sonorità la cui matrice è visibilmente distante dai dischi dei Police, ma che si muove agilmente al seguito di una timbrica pop veicolandone un testo in cui l’analisi del rapporto a due è vista da una differente prospettiva dell’innamoramento poetizzato in “Every Breath You Take” (“If it’s a mirror you want, just look into my eyes – Or a whipping boy, someone to despise – Or a prisoner in the dark – Tied up in chains you just can’t see – Or a beast in a gilded – That’s all some people ever want to be: Se è uno specchio che vuoi, guardami negli occhi – Ma se è un capro espiatorio, qualcuno da disprezzare – O un prigioniero nel buio – Legato da catene invisibili – O un animale in una gabbia dorata – Questo è ciò che nessuno vorrebbe mai essere”).

La solarità caraibica di “Love Is The Seventh Wave”, rappresenta ben più di un vincente intrattenimento, trasmettendo attraverso un ritornello facilmente memorizzabile un messaggio d’amore dedicato al mondo intero. Per la drammaticità di “Russians” - viene preso in prestito lo spartito della “Romanza” di Sergey Prokofiev – come per altro riportato nelle note di copertina – lasciando ai toni classici che ne contraddistinguono la melodia vocale per un’interpretazione da pelle d’oca. La profondità del testo legato all’attualità della guerra fredda, mette ancora più in luce la virtuosità e la voglia di maturità del bassista dei Police (There’s no historical precedent – To put words in the mouth of the president – There’s no such thing as a winnable war – It’s a lie we don’t believe anymore – Mr. Reagan says “We will protect you”. – I don’t subscribe to this point of view – Believe me when I say to you – I hope the Russians love their children too -: Nella storia non esiste alcun precedente – Aver messo le parole in bocca al presidente – Non c’è una guerra che si vince – Non è più una bugia che ci convince – Reagan dice “Vi proteggeremo tutti” – Io non do retta a questi concetti – Credetemi quando vi dico – Spero che anche i Russi abbiano figli da mare -).

Le note di “Children’s Crusade” mostrano quanto un artista caratterizzato da un grande talento compositivo possa dar sfogo alla propria creatività, cimentandosi in un pop dal tono fine che viene a sposare l’andamento del valzer che ne caratterizza strofa e ritornello. Il ripescaggio di “Shadows In The Rain” (dall’interlocutorio “Zenyatta Mondatta”) è forse un messaggio per ricordare ai vecchi fans, quanto sia importante non rompere col proprio passato, chiarendo però ai nuovi, quanto siano ancora vive le proprie radici.

La seconda metà dell’ascolto si apre con “We Work The Black Seam” ed un ipnotico riff in cui Kirkland, crea la giusta atmosfera che unitamente ad una sfumante ritmica tribale prepara il terreno ad uno dei più bei ritornelli del disco, in cui sono i vorticosi vocalizzi a permearne l’eleganza. Di eguale raffinatezza è il jazz-pop di “Consider Me Gone” (la cui lavorazione è stata impreziosita dall’inattesa visita in sala di regia di un elegantissimo Eddy Grant – proprietario dei Blu Wave Studios ove si stavano svolgendo le registrazioni di “TDOTBT” - insieme al Presidente della Guyana, destando non poco imbarazzo nella band), in cui l’intesa sonora tra i musicisti trova definitivo sfogo nella title-track, un vero e proprio manifesto di abilità e maestria strumentale.

“Moon Over Bourbon Street” (La luna sopra Bourbon Street) è uno swing essenziale in cui a dominare la scena è una flessuosità vocale non lontana da quella di Billie Holiday, per cui la nobile ispirazione presa a prestito da “Intervista col Vampiro” di Ann Rice, porta il biondo musicista per quest’unico brano, a lasciare da parte la chitarra per un morbido accompagnamento al contrabbasso. La familiarità del ritmo e dell’incedere melodico di “Fortress Around Your Heart” che conduce alla fine dell’ascolto, farà la gioia di chi vuol assaporare sotto una nuova foggia, emozioni già conosciute e che mai dovrebbero dissolversi.

Dalla foto di copertina non sfugge la somiglianza nella risolutezza espressiva con il grande Lawrence Olivier che interpretò con eccellenza il saggio Re Lear immedesimandosi senza pari nel rappresentare la tragedia shakespeariana. Allo stesso modo l’accostamento del musicista di Wallsend a Sir Lawrence non sembra affatto fuori luogo, vista l’audacia nell’impersonare il ruolo di poeta moderno e schietto a cui l’eterogenea combinazione di atmosfere di stile e suoni ne suggella la preziosità di insieme.

L’album può essere visto come una riuscita combinazione di stili che pasca sì dal passato ma orientata verso il futuro nel tentativo di far incontrare le due culture musicali che ne sono alla base: la bianca e la nera. Il risultato è dato dalla somma di quelle componenti musicali che vanno dal jazz al funk passando anche per la musica classica e il rock quanto basta, per essere fuse con eleganza e sapienza.

Riguardo al titolo Sting fa risalire l’ispirazione ad una sorta di incubo (anche facilmente interpretabile!), in cui la devastazione del suo cortile avveniva proprio ad opera di tartarughe blu; ben diverso dal piacevole immaginario che dopo l’ascolto questo disco è in grado di generare tra i fan dei Police, ma anche inevitabilmente in una massa di ascoltatori in grado di apprezzane lo spessore artistico. Quello stesso spessore capace di garantire il via ad una nuova e rischiosa esperienza solista, agendo in barba ai solidi trascorsi che gli avrebbero garantito sicurezza e sopravvivenza senza mettersi ulteriormente in gioco.

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