Alcune volte anche le macchine piangono...

String Driven Thing ne sono la prova.

Nascono come trio sul finire degli anni sessanta a Glasgow (Scozia - U.K.) e dopo un omonimo lavoro autoprodotto, la loro testardaggine, unite al talento, li porta a firmare con l'etichetta Charisma e a diventare il gruppo spalla ufficiale dei Genesis. Il gruppo si allarga a quattro e poi a cinque elementi e licenzia per la major un altro omonimo lavoro, accolto in maniera entusiastica dalla critica. Ma il destino è in agguato. Agli inizi del 1973 il leader del gruppo Chris Adams viene ricoverato in ospedale per un collasso e la settimana che ne segue è fondamentale per il futuro del gruppo. È proprio in questi sette giorni che nella mente di Adams (e dalla moglie Pauline) inizia a prendere forma il terzo atto, e masterpiece, del gruppo... appunto La Macchina Che Pianse.

Questo lavoro alterna momenti di estrema dolcezza ad inquietanti cavalcate progressive, sbilenche e (mai come in questo caso) malate. Certo, l'esperienza di quasi morte di Adams è costantemente al centro del lavoro, così come il violino elettrificato di Graham Smith, autentico asse portante di tutto il disco, spina dorsale alle visioni dei coniugi Adams. Le voci si fanno irrequiete e spaventate nei momenti più ansiosi ed inquieti del lavoro come nella title-track o nell'iniziale "Heartfeeder" dove la tensione sembra farla da padrone, perfetto contrappunto all'acidità delle linee del violino. In altri momenti escono tenere e dimesse armonie, per cui Bob Dylan, Leonard Cohen, Nick Drake e tutto il gotha del folk vengono presi e rimescolati dentro a sognanti ballate, cariche di trasporto, come nella splendida "Too See You", nell'eterea "Travelling" o nella popedelica "Slow Down The River". Folk che mescola i Love di Arthur Lee ai Floyd di Waters in "People On The Street" con la splendida voce di lei che esce dalle righe e prende per mano gli strumenti accompagnandoli dolcemente al termine; facendosi morbida e suadente nell'omaggio alla pasionaria Joan Baez in "House".

Ma i nostri non si pongono limiti di sorta ed usano brillanti colori lisergici per dipingere il southern-blues di "Night Club" o quello più funky di "Two Timin' Mama" con la voce di Pauline che più volte richiama la sensualità di Jim Morrison ed il marito Chris che ne esalta la sessualità. Il tutto per arrivare agli undici minuti finali di "River Of Sleep", neanche troppo sottinteso richiamo all'esperienza di vissuta da Adams; la composizione si divide in tre atti, che iniziano con "The Sowee", dove vengono mescolati magicamente Barrett, Waters e Dylan, per descrivere il senso di completo smarrimento vissuto dal protagonista, con il basso che pulsa in primo piano, il violino che esce lacerato dal sottosuolo ed un coro di voci compassionevoli ed al tempo stesso dimesse che ripetono mantricamente "Times is sleep and sleep is time".

La seconda parte, "Search In Time" è puro folk acido, progressivo e psichedelico strumentale che sottolinea perfettamente la sofferenza dell'impotenza vissuta in quei giorni difficili, dove la voce non vuole uscire, strozzata in gola dal dolore e dalla paura, con suoni di sirene che tentano di coprire le continuative rasoiate lanciate dal violino... prima di chiudersi con la dolce Pauline che canta "Going Down", grido d'aiuto che si fa flebile luce dell'alba, dopo una notte buia e tempestosa... dove anche la macchina pianse.

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