Li avevamo lasciati quattro anni or sono con un disco, quel "Underclass Hero" abbastanza prevedibile e adatto alla stagione estiva in cui vedeva la luce, che aveva in linea di massima deluso i due terzi di quegli ascoltatori che erano stati catturati delle sonorità più pesanti e serie di "Does This Look..." e "Chuck" e gli avevano snobbati precedentemente. E anche io probabilmente rientro in questa linea di pensiero, sebbene devo ammettere che tutto sommato anche il lavoro precedente conteneva dei pezzi interessanti come "The Jester" o "Count Your Last Blessings".

Li aspettavo al varco, per vedere se avrebbero gettato l'ancora e navigato indietro nel tempo o invece accontentarsi di rimanere ormeggiati a terra proponendo un disco fotocopia del precedente, tendente ad un pop-punk che oggi suonerebbe molto anacronistico, specie per chi ne aveva preso le distanze.

E fortunamente nonostante non abbiamo davanti un altro "Chuck", che continua a rimanere l'apice indiscusso, il menù dei canadesi si caratterizza comunque per portate e piatti interessanti.

Se a dire il vero l'antipasto ("Skumfuk", ndr) era stato un po' insipido, essendo un riciclo di cose già sentite, e a partire dalla title-track nonché ottimo primo singolo "Screaming Bloody Murder" (il cui titolo potrebbe portare più di qualcuno a facili ironie...) che i tre iniziano dettare le coordinate e riprendere un certo tipo di discorso impostato con il terzo e il quarto disco.

Abbandonati i motivetti da spiaggia con l'annessa scanzonatezza di fondo probabilmente delle antinomie insanabili per chi vuole cercare di dialogare con un pubblico più eterogeneo e maturo, i Sum 41 tratteggiano ora linee più dolci ora linee più tese e cupe, cercando come avevano già fatto in passato di andare oltre quell'etichetta di band cazzona buona solo per qualche festa alcolica tra amici.

Non stiamo parlando di chissà quale innovazione, ma il disco risulta godibile con episodi tutt'altro che scontati dall'opener "Reason to believe" dall'incedere circolare e progressive tra sessioni elettriche e soffuse parti al pianoforte, tornando in parte anche quei riff derivati dall'alternative e dal metal che avevano fatto la fortuna di Chuck ("Blood In My Eyes").

Non mancano pezzi più canonici come la ballad "What I Am To Say" che risente troppo di una certa schematicità e sorprese a dire il vero un po' che cozzano col contesto e col piglio dark e cupo del platter "Time For You To Go" e "Baby I Don't Wanna You Know".

Leggeri echi Radiohead-iani ma davvero flebili come gocce di ruggiada bagnano la commovente "Crash" che tuttavia non egualia "Best Of Me" probabilmente il loro miglior pezzo pop.

Per chi come me ha sempre amato il lato più spinto del gruppo il pensiero va subito all'alienante e trascinante "Jessica Kill" o a "Back Where I Belong".

Da citare infine una mini-suite suddivisa in tre parti "Holy Image Of Lies" - "Sick Of Everyone" - "Happiness machine", con quest'ultima parte che con le sue chitarre a singhiozzo contrappposte a spiragli agrodolci ruba la scena. Il disco si chiude con una indovinata e atmosferica "Exit song".

Ottime le fughe strumentali, spesso veramente memorabili, penso al bridge di "Blood In My Eyes", bene i molteplici inserti di piano, ripresi dal precendente full-lenght, strumento questo qui usato più intelligentemente e incastrato alla perfezione. Da notare che questo è il primo disco in cui figura nella line-up ufficiale il nuovo chitarrista Tom Thacker, che si è unito in pianta stabile dopo aver fatto da accompagnamento prima in diversi tour.

La nave ha rimesso in moto, la marcia è ricominciata, tuttavia sono convinto che nonostante il buon lavoro profuso che si evince dal suddetto "Screaming Bloody Murder", questi quattro ex-cazzoni possano ancora spingersi oltre, lo sento.

Staremo a vedere.

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