Sinceramente non so quanto questa cosa sia vera. Anche se non importa. Me l'ha raccontata mio padre, che deve avere probabilmente letto la cosa a suo tempo su un giornale oppure visto una qualche intervista alla televisione, e effettivamente non è che mi interessi granché sapere quanto sia vera oppure no. La storia riguarda il making di 'C'era una volta in America' (1984) di Sergio Leone. Praticamente sembra che, durante le riprese, Sergio Leone 'obbligasse' gli attori a recitare con in sottofondo le musiche che Ennio Morricone aveva composto per il film. Praticamente con la colonna sonora in sottofondo. L'intento di questo tipo di operazione è chiaro: Sergio Leone voleva che tutti i personaggi del film fossero in qualche modo emotivamente profondamente 'segnati' da quella straordinaria colonna sonora, questa doveva letteralmente impregnare quella che sarebbe stata la loro recitazione. Colonna sonora il cui celebre tema principale è praticamente fischiettato quotidianamente da mio padre, che lo considera il suo 'motivo' principale, unitamente al tema principale di 'Serpico'. Che poi, mi piace cogliere questa occasione per raccontare un'altra cosa significativa per quello che riguarda mio padre. Quando cantate, voglio dire, se vi mette a canticchiare e qualunque cosa voi stiate canticchiando in sua presenza, statene certi, lui comincerà sempre e comunque a cantare e a cantare più forte di voi.

Non lo so comunque quanto ci sia di vero in questa cosa sul making di 'C'era una volta in America'. La cosa comunque è quantomeno verosimile. Del resto sono sicuro che la storia del cinema sia piena di esempi di questo tipo e che questa 'strategia' sia regolarmente applicata anche oggi. Forse oggi più che ieri. Non lo so. Senza considerare poi il fatto che ci sono un sacco di film che sono basati esclusivamente sulla loro colonna sonora, che assume un ruolo dominante in quello che il regista intende trasmettere ai suoi spettatori. Di recente, faccio un esempio, ho visto al cinema l'ultimo film del regista di Copenaghen, Nicolas Winding Refn, 'The Neon Demon'. Non entra nel merito della qualità complessiva del film, ma è evidente che questo non avrebbe praticamente alcun senso senza il particolare utilizzo delle luci e dei suoni, della colonna sonora, al solito composta da quel grande maestro di musica che è Cliff Martinez. Tra l'altro questa non è sicuramente la prima volta che Refn lavora così ad uno dei suoi film. È un regista che è evidentemente abituato a dirigere i suoi film in una maniera concettuale e più che da immagini vere e propri e dialoghi, basata sull'uso delle luci (luci al neon e accecanti, nel caso di 'The Neon Demon') e in particolar modo delle musiche.

Ma del resto esistono anche musicisti che compongono la loro musica in una maniera che potremmo definire figurativa. Come se stessero dipingendo 'acquerelli' (Bonnie 'Prince' Billy) o come se stessero registrando delle colonne sonore per dei film (Luke Haines - 'British Nuclear Bunkers'). Non solo. Ovviamente ci sono un sacco di casi in cui vi sono interazioni e intrecci più o meno diretti tra le diverse arti. È qualche cosa di inevitabile. Succede sempre. Per forza.

Allora quando ho sentito per la prima volta '13' (Smalltown Supersound), l'ultimo disco dei Supersilent, l'ensemble di musica di avanguardia formatosi a Bergen, Norvegia, nel corso degli anni novanta, mi è immediatamente venuto in mente quello che costituisce uno dei miei tanti progetti mai portati a termine. In questo caso si tratta, si sarebbe trattato di un'opera letteraria di fantascienza ambientata nello spazio e in cui i protagonisti sono astronauti provenienti dagli Stati Uniti d'America (oppure in parte anche dall'Europa) e in un equipaggio composto in parte da militari e in parte da civili. Questi sono a bordo di una astronave innovativa e sperimentale per diverse caratteristiche che non sto qui a raccontare, denominata 'Pausania', e devono compiere una missione - per lo più a scopo propagandistico - nella quale devono compiere un'orbita circolare attorno al pianeta Marte e poi ritornare sulla Terra, dopo essere passati dritti nel mezzo dei due asteroidi del pianeta rosso, Deimos e Phobos. A questo punto, in una situazione dove tutto deve necessariamente essere perfetto, succede qualcosa. Si suppone che gli astronauti siano persone allenate a ogni tipo di situazione e di stress e con un quantitativo importante di conoscenze di ogni tipo e non solo scientifiche, quindi preparati a tutto, eppure qualche cosa comincia a non funzionare in queste persone che si pretende siano una specie di macchine perfette, degli automi e una specie di geni autistici e dove invece emergono prepotenti delle singole individualità a livello più o meno emozionale. Senza raccontare tutta la storia, diciamo che si tratta di una storia di fantascienza e di un thriller psicologico, ma allo stesso tempo anche di una specie di analisi sociale della mentalità e delle strutture sociali del mondo occidentale. Sfortunatamente questa storia non esiste. Cioè esiste, ma non ho mai continuato a scriverla, quindi allo stato attuale esiste solo dentro la mia testa.

Quando l'ho scritta, quando ho scritto gran parte di questa storia e poi senza continuare, ero in uno stato di allucinazione. Ero a Barcellona, nel mese di dicembre di quattro o cinque anni fa, in occasione di quella che poi fu l'ultima edizione del Primavera Club. Non mi ricordo molto del mio soggiorno, perché in quel periodo ero completamente 'insano'. Mi beccai una febbre il giorno prima di partire (non ricordo prima di quella volta di avere mai avuto la febbre tra l'altro) e anche se passai comunque tutto il mio tempo in giro (da segnalare una grande performance del solito Michael Gira con i suoi Swans), l'ultimo giorno prima della partenza ero completamente ko. Così rimasi in ostello e cominciai a scrivere. Scrivevo senza fermarmi. Ho scritto pagine e pagine senza fermarmi come non ho mai fatto in tutta la mia esistenza prima di allora e dopo e, a proposito, non ve l'ho detto prima, ma chiaramente, forse perché mi sentivo in qualche modo 'isolato' dal mio stato di alterazione dovuto alla febbre, immaginai la storia in una maniera che più che figurativa, avrebbe dovuto costituire un'esperienza espressiva audio-visiva, una manifestazione sia sonora che visiva di allucinazioni e per questo accompagnata necessariamente da una colonna sonora d'avanguardia sperimentale e allo stesso tempo 'spaziale'. Rumorosa come il vuoto dello spazio. Insomma, in definitiva, quello che voglio dire è che probabilmente i Supersilent (Arve Henriksen, Helge Sten aka Deathprod, e Starle Storlokken) non sapevano quando hanno registrato questo disco (che poi sarebbe una collezione di materiale registrato nel corso degli anni), il primo da quando il batterista Jarle Vespestad ha lasciato il gruppo, che questo era esattamente la colonna sonora della mia storia. Eppure le cose stanno proprio così.

Il disco è stato registrato in due diverse live performances, masterizzato poi dallo stesso Helge Sten e composto da nove canzoni (scientificamente numerate da 1 a 9) che si potrebbero definire in maniera assai generica come free-improvisation, anche se questa definizione secondo me non è del tutto esatta perché è evidente il lavoro di ricerca e di voluta sperimentazione che c'è dietro questo lavoro.

Stiamo parlando ovviamente di un disco che può essere apprezzato solo se si riesce a contestualizzarlo in una maniera concreta e in un contesto concreto o comunque immergendo se stessi, durante l'ascolto, in una qualche dimensione e che non richiede per forza di essere fisicamente esistente e può benissimo essere immaginaria. Ci sono elettroniche e rumoriste composizioni musicali come '13.1' e '13.3', in pratica distorte e cacofoniche ri-edizioni della musica dei Kraftwerk; musica ambient dalle atmosfere glaciali ('13.8.) o comunque dal tono così solonne e serioso da far pensare a quella solitudine delle individualità dei singoli nel contesto così complesso della nostra società o magari, perché no, nello spazio profondo ('13.2'). Ma i Supersilent probabilmente mostrano tutte le loro qualità in quegli episodi di avanguardia e che poi si configurano comelunghe session jazzy e noisy e allo stesso tempo ossessive come '13.5', drone e acide, tratteggiate come le immagini di un vecchio televisore che non prende il segnale ('13.7'), oppure come nel caso di '13.9', il singolo ideale del disco, come esplosioni di differenti tipologie di suono che sparano flash alla velocità della luce fino a risplendere luccicanti all'interno della nostra testa. Parlo di sonorità e di composizioni modulari di suono che personalmente non ho ascoltato in nessuno dei dischi usciti di recente e che per quanto mi riguarda fanno di conseguenza di questo disco, uno degli episodi fondamentali di questo anno 2016.

Per il resto, forse qualcuno potrebbe essere interessato a come va a finire la storia di 'Pausania' e quale misterioso destino attende la sua ciurma di astronauti, ma sarebbe fuori contesto continuare a parlarne e raccontare questa storia. Diciamo solo che uno space-shuttle, nonostante questo abbia uno spazio limitato, costituisce per forza anche questo un piccolo modello di società, e questo specialmente se parliamo di una missione che richiede diverso tempo, magari un mese o due, per essere portata a termine. Ogni tipo di società, è risaputo, comunque sia strutturata e quale sia la sua dimensione, questa richiede dei compromessi e delle regole che siano comuni a tutti i membri che ne facciano parte. Quindi quello che possiamo definire un equilibrio. E questo tipo di processo, che è una regola non scritta, può essere applicata a una società e a una qualsiasi collettività, ma allo stesso modo anche al singolo individuo in quelle che sono le sue differenti spinte emotive e/o intellettuali e conseguentemente a questo punto anche allo spazio e a quello che chiamiamo cosmo, l'intero universo. Non c'è in questro senso allora nessuna differenza tra il singolo e quello che possiamo definire come 'tutto'. Che cos'era il big-bang, del resto, se non una composizione di avanguardia proprio come quelle che compongono questo disco qui, come la musica dei Supersilent. Una libera manifestazione di creazione. Un atto di volontà creativa. Qualcuno parla di free-improvisation, è una bella definizione, ma la sensazione in realtà è che queste forze che agiscono, che queste manifestazioni di energia, sappiano invece esattamente come muoversi e cosa fare.

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