Dov'è il sesso? Dov'è la droga? Dov'è la violenza? Non ci troviamo di fronte ad una band di sfrontati ribelli ma stiamo invece parlando di quattro raffinatissimi intellettuali di cui uno, David Byrne, ossessionato dall'alienazione urbana e da tutti i suoi effetti. Ecco allora spiegate le melodie demenziali, i ritmi da discoteca "off", le liriche da manicomio, la voce da psicopatico dello stesso Byrne. "77" e "More Songs About Buildings And Food" avevano affrontato più o meno gli stessi temi con un'ironia folle e sardonica, questa volta invece tutto suona maledettamente serio e minaccioso...

"Fear Of Music" è una vera e propria opera saggistica, uno studio paranoico e surreale sulla vita di tutti i giorni, sull'incomunicabilità, sull'edonismo artificiale dietro cui si nascondono esistenze nevrotiche e bizzarre. Coadiuvato da un trio musicale di assoluto pregio, formato da una sezione ritmica precisa e assolutamente adatta ai vaneggiamenti intellettuali di Byrne, ovvero dalla bassista Tina Weymouth e dal batterista Chris Frantz (marito e moglie) e dal chitarrista Jerry Harrison, Byrne porge le sue liriche impressioniste in un registro che può ricordare David Thomas ma è senz'altro meno incline ai vocalizzi astratti del famoso leader dei Pere Ubu, preferendo soltanto accennarne l'irrefrenabile follia e talvolta adagiandosi in un registro freddo e distaccato da uomo d'affari. Come scrisse il critico Lester Bangs, l'album si sarebbe potuto tranquillamente chiamare "Fear Of Everything", in quanto nulla sfugge alla castrante ossessività di Byrne: il cantante è vessato dalla sua incapacità di comunicare in "Mind", "ho bisogno di qualcosa per farti cambiare idea", insiste, ma ci si rende conto ben presto che non riuscirà mai a trovare quel qualcosa. È morbosamente affascinato dalla carta e dai raggi di luce che la attraversano in "Paper", cerca disperatamente una città in cui vivere in "Cities", nella quale Birmingham è una città "dove vivono molti ricchi, molti fantasmi in molte case" e Memphis è "la casa di Elvis e degli antichi Greci", dipinge inquietanti paesaggi di guerra in "Life During Wartime" ("Questa non è una festa, non è una discoteca, non è cazzeggiare in giro", proclama nel ritornello) e liquida il Paradiso come un luogo "dove non accade mai nulla".

Persino l'iniziale "I Zimbra", esercizio di pseudo-world music gelida e concettuale, con liriche nonsense del poeta dadaista Hugo Ball, è adombrata da questa densa nuvola di nevrosi. La musica è un'affascinante mistura di rock, funk, disco e world music, il tutto frullato, sterilizzato e coperto da una densa patina di assurdismo folle e quasi infantile: l'enfasi maggiore è posta sui ritmi, sulla connessione pressochè perfetta stabilita da Weymouth e Frantz e al tempo stesso sul canto particolarissimo di Byrne. Impossibile da trascurare, poi, la produzione di Brian Eno (e il suo apporto ai cori in alcuni brani) che aggiunge un'ulteriore cappa di surrealismo al tutto, con i suoi trucchi sottilmente umoristici (i campionamenti degli uccelli e delle rane nella minacciosa conclusione semi-ambient di "Drugs") e la sua particolare attenzione per gli effetti vocali e i suoni sinistri del sintetizzatore ("Memories Can't Wait") "Fear Of Music" è certamente un album-trattato, un'opera intellettuale e profonda nella quale Byrne illustra perfettamente il suo punto di vista: il problema non è la mente, non è la carta, nè tantomeno una città qualsiasi o addirittura il Paradiso: il problema è la vita stessa. La vita, per Byrne, è un'infinita spirale di nevrosi e inquietudine, un ciclo nel quale la normalità è l'unico elemento anomalo e l'unica soluzione possibile è la beffa, l'ilarità, il prendere in giro sè stessi e l'esistenza in ogni suo aspetto. Un po' come facevano i Pere Ubu, terrorizzati dalla tecnologia e dalla società industriale finchè decisero di parlarne con leggerezza esorcizzandone così i traumi e le tragedie.

Un ridere per non piangere, questo è "Fear Of Music". Spesso, come in questo caso, è tutto ciò che possiamo fare.

Carico i commenti... con calma