…That’ s the trouble! Forgot the trouble! That’ s the trouble! Forgot the traaaabol! That’ s the traaaaabol!...

I Talking Heads erano dei geni: roba che la senti oggi e pensi che le discoteche si perdono qualcosa di grosso facendo girare quella robaccia latino-americana o techno-house, confezionata a tavolino dal marketing discografico, invece di, che ne so, una canzone come With Our Love, ritmo funky coinvolgente dalle prime note, la voce pazzoide e isterica di David Byrne, sferzate di chitarra tipicamente “new wave”, senza abbandonare mai il loro talento per l’orecchiabilità, viene voglia di ballare anche ad un poltrona&divano come me… è un sogno lo so, ma ve lo immaginate veramente un locale dove ti mettono su le Teste Parlanti?

Eh sì, i geni del ritmo: uno come Brian Eno l’aveva capito subito e, dopo la prima uscita discografica, 77, non se li fece di certo scappare e decise di produrli per questo secondo album. Un album che inizia da dove era finito il precedente, con Thank You For Sending Me An Angel che è come fosse la coda di Pulled Up, melodia che pare prendere la rincorsa da lontano sulle note di tastiera, frenetiche e ripetute incessantemente, con i virtuosismi vocali di un Byrne che parte già a mille.
Dopo la traccia menzionata sopra, si procede con il glam-pop di The Good Thing, ma, dopo due strofe, ecco cos’hanno di speciale questi qua!, ecco il cambio di ritmo, scandito dalla voce ansiosa e convulsa del cantante, che come al solito sembra maneggiare uno strumento tanto la rende ritmica e nervosa, poi un incredibile coda sferzante e isterica con il duello tra i vocalizzi di David e la chitarra. E vai con Warning Sign, melodia lenta ma sempre funkeggiante sottolineata da effetti elettronici tipo folate di vento (“made in Enolandia”) più un arpeggio dissonante di chitarra di due note vicine ripetute più volte, che crea un effetto straniante-deviato e che poi culmina in uno stacco in levare spiazzante: struttura che si ripete per tutta la canzone, con Byrne che sembra un insonne che non riesce a trovare la posizione nel letto e si agita vaneggiando.

Quasi un parlato, lamentoso, schizoide, straziato, ma ritmico, ancora terribilmente ritmico. Si giunge in zona pop con The Girls Want To Be With The Girls, dominata dalle tastiere da disco anni ’70, che creano melodie orecchiabili, ma con il solito tocco in più dato dalla voce, meno farneticante ma ugualmente peculiare. Poi un autentico capolavoro funky (ascoltate l’uso assolutamente ritmico della chitarra), Found A Job, a tratti quasi rap, con un finale tutto strumentale ancora in perfetta sintesi tra ballabilità e isterismo paranoico, e, di seguito, il capolavoro: Artists Only. Intro con arpeggio di chitarra, solito cambio di ritmo, ancora melodia quasi rappata da un tesissimo Byrne doppiato dalla tastiera quasi infuriata (con note acute in contrasto con il timbro basso della voce), con il basso a fare da contrappunto; poi breve intermezzo da film thriller (che ricorda la parte iniziale di Interstellar Overdrive, quella subito dopo il riff introduttivo) con crescendo fino all’ urlo del cantante, per ripartire dopo l’accumulo di tensione con il ritmo nervoso di prima.
Successivamente, funk alternato a sonorità più prettamente punk-“new wave” nel ritornello in I’ m not In Love, poi Stay Hungry, un altro brano da disco (sempre disco intellettuale, eh, e soprattutto sempre funk) con accenni glam nel refrain e un finale che vede un Byrne quasi riflessivo, sempre tra il parlato e il cantato ma ora fattosi pacato, come in riposo assorto.

Le ultime due tracce sono poi quelle in cui più sente, a mio giudizio, l’intervento di Eno. Take Me To The River, cover di Al Green, fu uno dei maggiori successi del gruppo, ma rappresenta anche uno dei loro brani più sperimentali, “newavizzando” un classico soul. È infatti resa completamente diversa dall’originale grazie agli arrangiamenti tipicamente “testeparlantiani”, uniti ai numerosi effetti elettronici, intuizioni queste che indirizzano la band verso quella che sarà la sua strada futura (vedere il capolavoro Remain In Light, passando attraverso la splendida Drugs del loro terzo album): il ritmo per una volta è lento, ma la tensione si concentra in tutti quegli staccati, sia nel cantato che nell’accompagnamento strumentale-elettronico, e culmina poi nell’isterismo finale, fatto di sbraiti vocali e chitarristici, che si liberano dell’energia nevrotica accumulata in precedenza, ma allo stesso tempo rimangono come trattenuti nella cadenza ancora piana (quando fanno questi pezzi lenti ma che riescono a trasmettere un tale senso di nevrosi ritmica mi vengono i brividi…).
Il finale è Big Country, country (!) strumentale, con tanto di mandolino, con venature jazz (!), uno splendido sax (!) a creare un’atmosfera romantica e raccolta, finalmente pacificata; ma notare la linea di basso invece tipicamente funky che dà la sfumatura più tipica del gruppo.

Disco geniale, come tutti i primi quattro di questo magico gruppo, affini ai Devo ma meno punk, non lontani dai Pop Group ma più pop, da prendere ad occhi chiusi, se avete almeno un po’ di gusto per il ritmo.

Ah già… Ritmo. Non si era capito, vero? (provate a scrivere “ritm” su “Trova parola in questa pagina” e vedrete… )

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