Colorita, variegata e folta è la fruttificazione che i primitivi semi slintiani producono nello sterminato giardino che, per esigenze contenutistiche, risponde al nome di post-rock. Accanto a fioriture esotiche e variopinte di una bellezza senza tempo (e senza genere), non di rado sterpaglie sterili e venefiche appiattiscono e contaminano il paesaggio.

E poi i boccioli coltivati nelle serre; crescono levigati e splendidamente modellati, ma, al momento di schiudersi, la promessa di felicità che rappresentavano è puntualmente disattesa. Troppe cure soffocano il profumo e opacizzano il colore, così come, in molti romanzi di Zola, l’ortodossia naturalista rendeva l’agire ed il pensiero dei personaggi troppo artificiale.

Questo è il difetto maggiore che trovo nell’esordio dei Tarentel; disco per altro magnificamente suonato, ma riassumibile, nelle sue linee essenziali, in poche righe.

Un pulviscolo spaziale permea i pezzi; improvvise fluorescenze chitarristiche illuminano itinerari nascosti mentre la spuma di ritmiche elastiche si infrange sugli scogli. Esili arpeggi si insinuano lentamente come tentazioni represse troppo a lungo e finiscono masticati dal crescendo di rauchi venti cosmici che li sputano nel nulla.

Surriscaldamenti hard-rock scintillano per un attimo nell’atmosfera per poi immergersi nelle gelide acque di armonie dilatate e, trasformati, resuscitano limpidi e pacati. Pare di ascoltare un Gottsching imborghesito gigioneggiare in una jam con gli Explosions in the Sky.

Insomma, “From Bone to Satellite” è certamente un buon disco che ha una struttura interessante. Mi pare però che sia una struttura un po’ troppo artificiale/artificiosa che risenta di un monocromatismo simile alle poesie del Blok dell’ultimo periodo, quando il repertorio simbolico non creava più mondi incantati avvolti dalla nebbia, ma piuttosto ripiegava su se stesso cristallizzandosi in forme stereotipate.

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