“Un sound editor è più importante del solista, perché può trasformare un rutto in un’epifania sonora”.
Il caos come progetto.
Ci sono musiche che nascono da una visione, da un’idea o da una convinzione radicale; quella di Attilio “Teo” Macero - schiena rigida da ex sassofonista classico e lo sguardo di un uomo che ha passato metà della vita a tagliare e incollare la “roba” di uno come Miles Davis - era che tutto, ma proprio tutto, potesse essere migliorato col montaggio, inclusa (forse soprattutto) la realtà.
Ma partiamo dall’inizio.
E, all’inizio di questa storia, c’è questa cosa del “Third Stream” che si era inventata Gunther Schuller e nella quale, chissà come, ci si era infilato pure Charlie Mingus con il suo Jazz Composers Workshop.
A suonare il sax nel Jazz Composers Workshop c’era questo “mangiaspaghetti” arrivato da un sobborgo dello Stato di NY dove suoi genitori gestivano un night club, il “Macero's Tavern”, e che aveva alle spalle buoni studi classici alla Julliard School of Music.
Al suo primo incontro con Mingus, racconta Macero: “Mi urlò contro per dieci minuti. Poi mi chiese se avevo una sigaretta. E mi assunse.” Ora capisci come ha fatto, Macero, a gestire uno rognoso come Miles Davis per tanti anni?
Il nostro Teo, poi, era pure un buon compositore e in quella roba – il “third Stream” – che non era né Jazz, né Classica, ma una terza via tra le due con l’aggiunta di una buona dose di atonalità, ci si trovava benissimo. Lo dimostrerà in “Explorations”, il suo primo disco del ’53 e in un migliaio di altre composizioni per orchestra, per balletti, per il cinema, per ensemble di jazz.
Ma non era quella la sua strada.
La sua strada la trova nel’57, quando entra alla Columbia Records come editor e, poi, come produttore. E’ qui che nasce il “metodo Macero”: una specie di rito voodoo del montaggio, un Frankenstein musicale che respira grazie alle forbici (o, per dirla meglio, lamette da barba e nastro adesivo) di Teo Macero e Il bello sta nell’architettura invisibile, nel modo in cui tutto è stato montato, ma la cosa più incredibile è come, Macero, riesca a far sembrare tutto intenzionale. Macero non compone: decide cosa sopravvive, nel suo ufficio c’era un armadio pieno di bobine scartate da Miles, Mingus e Monk, che lui chiamava “il cimitero degli elefanti jazz”. Macero è il Charles Darwin del nastro magnetico.
Quando lavorava come produttore alla Columbia, raccontano che avesse l’abitudine di entrare nelle sale prove, ascoltare un minuto e mezzo di musica e dire: “Ok, abbiamo abbastanza. Il resto lo facciamo in montaggio.” I musicisti lo odiavano, finché non ascoltavano il risultato. Poi lo odiavano lo stesso, ma con rispetto
Macero sapeva stare nel caos come altri stanno in salotto.
Poi arriverà Miles Davis e saranno scintille e fuochi d’artificio, quei due fanno fuoco e fiamme, litigano e s’incazzano (una volta Miles non gli parlò per quasi due anni ma non riuscì a fare a meno di lavorare con lui) e la musica esplode, implode, si contorce, si accartoccia su sé stessa; è il jazz elettrico del ’69 che ha fatto di Macero il santo patrono del caos organizzato.
E, adesso, prendi la tua copia di “Bitches Brew”.
Do per scontato che, se ti stai sorbendo questo mio – ennesimo – spataffione, tu abbia sicuramente una copia di “Bitches Brew” da qualche parte su di uno scaffale qualunque. E mi piacerebbe dare per scontato che - se passi del tempo in questo bar – su quello stesso scaffale ci siano anche “In a Silent Way”, “A Tribute to Jack Johnson”, “On the Corner” e “Kind of Blue” appoggiati ad un santino di Davis, ma anche – un po’ più in là – “Time Out” di Dave Brubeck, “Ah Hum” di Charlie Mingus, “Monk’s Dream” di Thelonius Monk e la colonna sonora de “Il Laureato” di Simon e Garfunkel, così, giusto per avere una minima (minimissima) idea di dove abbia messo le mani (e le forbici) il nostro Teo.
Ora mettili tutti in un frullatore e aggiungici il “wall of sound” di Phil Spector, i cieli di diamanti di George Martin, la geniale follia rumoristica di Joe Meek, le astronavi musicali di Raymond Scott e le sirene meccaniche di Edgard Varèse che fischiavano nelle orecchie di Frank Zappa, “Endtroducing” di DJ Shadow e, forse, avrai una vaga idea di chi sia stato Teo Macero.
Poi Teo molla tutto (ma con Miles no, con Miles ci resterà legato almeno fino all’’83) e, nel ’75, si crea la sua casa discografica: la Teo Production. Perché per certe musiche che aveva in testa le sue mani dovevano essere libere.
Musiche tipo quelle di “Fusion” (e mai titolo fu più esplicativo).
Il nostro aveva composto “Fusion” nel ’56 per l’Orchestra della Columbia University e quintetto jazz; poi, nel ’58, la affida a Bernstein che la esegue con la New York Philarmonic e un quintetto jazz composto da Art Farmer, John La Porta, Don Butterfield, Wendell Marshall e Ed Shaughnessy. Ma sarà nell’’82, che messi in uno studio di registrazione a Londra e, poi, l’anno dopo, a NY la London Philarmonic Orchestra, i Lounge Lizards e Ryo Kawasaky alla chitarra elettrica, ne inciderà (e manipolerà) la versione definitiva.
”Fusion” parte con un attacco orchestrale che sembra voler rassicurare l’ascoltatore: archi eleganti, ottoni pieni, un’aria da colonna sonora prima che “cinematico” diventasse un aggettivo di moda per certe musiche.
Poi, però, arrivano i Lounge Lizards e portano via tutto come un branco di selvaggi. È qui che sguazza il genio di Macero, come durante le sessions di “Bitches Brew”, quando - raccontava - “non si capiva più chi stesse suonando cosa, ma non importava: avrei sistemato tutto a casa, come sempre.” Su “Fusion”, fa esattamente questo: taglia un pezzo di orchestra, lo mette in reverse, ci incolla sopra un sax storto di John Lurie e poi ci piazza dei silenzi improvvisi che sembrano buchi neri emotivi. Gli archi della London Philarmonic cercano di intonare qualcosa che assomiglia a Stravinsky, ma Macero li taglia, li incolla, li manda in reverse, li rimonta come aveva fatto in “In a Silent Way”, solo che qui il risultato non è silenzioso nemmeno per sbaglio. Così, quando entrano i Lounge Lizards, il disco smette definitivamente di avere senso e diventa finalmente interessante. Sembra quasi di sentire Macero ridere dietro il vetro della control room, lo stesso ghigno che, secondo una leggenda raccontata dalla sua ex assistente, aveva quando Miles Davis gli portava ore di jam session dicendo: “Teo, fai tu”. E lui, ovviamente, lo faceva. Sempre.
E Il bello del disco non sta nei temi (non ce ne sono), né nelle improvvisazioni che Macero taglia spietatamente ogni volta che rischiano di diventare comprensibili, ma in quel prendere frammenti e trasformarli in un organismo nuovo, uno che respira a scatti, con un polmone sinfonico e l’altro jazz.
“Fusion” non è un album, è un campo di battaglia. Le tracce non si succedono: si inseguono.
La London Philarmonic suona come se tentasse di mantenere la calma mentre la nave affonda; i Lounge Lizards suonano come se avessero dato fuoco alla nave per vedere cosa succede.
È troppo lungo e troppo corto allo stesso tempo, è grandioso e irritante, è un disco che non ti chiede di essere ascoltato ma subìto. È indigesto? Certo. È esagerato? Assolutamente.
Sono solo poco più di una quindicina di minuti ma bastano a lasciarti esausto. Il resto del disco raccoglie altre sei composizioni di Macero, forse meno esplosive, ma non meno interessanti.
L’Arte di Macero nel momento della sua maturità, era questo: prendere mondi incompatibili, strapparli, cucirli insieme e vedere se camminano. E “Fusion” cammina. Zoppica, inciampa, si lancia contro i muri — ma cammina.
Per @odradek
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