Terry Reid è il tipico esempio dell'artista a cui non ne va dritta una. Per l'adolescente prodigio, incensato da Aretha Franklin e soprannominato “the silver scream” per la potenza della propria voce, l'entrata nella scuderia di Mickey Most sembrava il lasciapassare per una radiosa carriera. Purtroppo non fu così, nonostante delle doti naturali indiscutibili. Quei pochi che al giorno d'oggi conoscono il suo nome, lo ricordano più per il suo famigerato e fatale rifiuto che per i suoi reali meriti. Colui che declinò la proposta di Jimmy Page di entrare nei New Yardbirds, futuri Led Zeppelin e rockstar milionarie. Nella vita, si sa, la sorte ha sempre un ruolo decisivo, per quanta caparbietà ciascuno di noi possa metterci. Ma al diavolo! In fin dei conti, nella propria illusoria rincorsa al successo solista, Terry Reid ci ha comunque lasciato dell'ottima musica. A partire dai primi lavori, più grezzi ed elettrici,  per arrivare a quelli della maturità, tra i quali un posto speciale lo ricopre il disco oggetto di questa recensione.

“River” è infatti l'opera più intensa e travagliata del cantautore, che non solo segna il distacco dal giogo di Most, ma fotografa al tempo stesso il desiderio di rinascita e di riscoperta di sé stesso dell'artista. Un'odissea a cavallo di due mondi, di due modi di intendere la musica, che vive di contrasti e si apprezza nelle sfumature. Il fiume serve un nuovo cavaliere errante e la sua poetica malinconica, che sembra arrivare dai margini del mondo. Musicisti di alto livello accompagnano Terry in questo viaggio: soprattutto il polistrumentista e pioniere della psichedelia David Lindley, ma anche Lee Miles al basso, Alan White e Conrad Isidore alla batteria e Willi Bobo alle percussioni. Un viaggio attraverso il blues elettrico e ritmato del primo lato, frutto delle sessions definitive in suolo americano con il produttore Tom Dowd, e l'anima bucolica e sognante della seconda parte, che include alcuni brani registrati in terra d'Albione con Eddie Offord. Un incontro-scontro di terre e culture differenti. L'eterno respiro delle acque è il trait d'union, nonchè l'impalpabile presenza che si avverte tra i solchi di quest'opera. La voce graffiante e piena di sentimento di Reid accompagna i nostri sentimenti alla deriva, mentre gli argini scorrono via lenti, nel flusso e riflusso di note che scandisce il ritmo delle nostre vite. Note semplici, che a poco a poco prendono corpo, liberano la mente e alleggeriscono i nostri pensieri. La malinconia esistenziale del  blues che si contamina di elementi jazz e folk, in un linguaggio che non ha schemi né direzione.

“River” è un disco da assaporare lentamente, di quelli che ci lasciano gustare le nostre amare vite più dolcemente.

Carico i commenti... con calma