Quello che compio è un vero e proprio atto d’amore verso un’opera d’arte che adoro sopra ogni altra in campo musicale (e mi pare che lo meriti), motivo per cui chiedo venia sin d’ora per l’assoluta parzialità che andrò a dimostrare. Di chi parliamo? Dei Beatles, ma in qualche modo non parliamo dei Beatles tutti insieme. Il disco? Un disco che non esisteva fino a poco prima di deciderne l’edizione, a registrazioni già completate, senza un progetto di copertina, con un titolo scartato all’ultimo minuto. Il progetto di un possibile fallimento, dal quale George Martin – non potendolo controllare – cercò di mantenere il più possibile le distanze. Nonostante tutto, un capolavoro. Assoluto.
Quando nel 1968 i Fab Four si ripigliano dalla sbornia ‘Revolver / Sgt. Pepper’s / Magical Mystery Tour’ sono tutt’altre persone dai quattro ragazzi entusiasti di ‘Help!’. Sono cresciuti molto, hanno assaporato un successo che solo Elvis Presley può dire di conoscere e si sono formati idee nuove, politiche, religiose, sociali e musicali, ed una nuova consapevolezza artistica e personale. John e Paul sfoggiano barbone alternative, Ringo non è più un nerd e George è assorto nel suo nirvana, nel quale trascinerà brevemente il gruppo fino a che non annuseranno l’imbroglio e se ne torneranno a casa a fare i miliardari hippies con tanto di Rolls bianca. (Anzi, miliardari mica tanto, perché la neo fondata Apple è da subito in quei casini finanziari che saranno la causa remota dello scioglimento dei Beatles).
Nel clima disinvolto della gestione Apple, i Beatles hanno tutti e quattro in tasca le chiavi degli studi EMI di Abbey Road, perché ormai non pagano alcuna tariffa oraria ed in sala di registrazione ci mangiano e ci dormono, se vogliono, e per loro c’è sempre un tecnico di turno disponibile. Hanno pure in tasca i nastri di una manciata di demo acustici (i famosi Kinfauns Tapes, registrati a maggio nel cottage di George, nel Surrey) tra cui una versione meravigliosa di ‘While My Guitar Gently Weeps’, ma (come diceva De Andrè? ‘Quello che non ho’) quello che non hanno ormai è il senso del gruppo, indiscutibilmente. Hanno un sacco di idee in testa, influenze nuove, musica nuova, ma cominciano ad entrare alla spicciolata in sala di registrazione, separatamente gli uni dagli altri, per registrare tutto quello che passa loro per la testa: esperimenti, scheletri di canzoni, cazzate estemporanee, esercizi di stile, canzoni vere e proprie e filastrocche. Durante le faticosissime sessions del White Album (un po’ di tempo in sala insieme lo devono pur passare!) verranno registrate nientemeno che ‘Hey Jude’ e ‘Revolution’, mica robetta, subito piazzate su singolo perché di questo ipotetico nuovo album i Beatles non hanno ancora idea, né voglia di lavoraci più di tanto.
Come sempre Paul è il Beatle più attento al risultato finale, ed è a lui che si ‘aggrappa’ lo sconcertato George Martin, in genere abituato a dirigere le sessions in modo militare. I brani direttamente riconducibili al Macca risulteranno i più arrangiati ed orchestrati, ma John è capace di fare da solo (o almeno ci crede) e comincia a smanettare in sala regia con l’assistenza di Yoko Ono, alla cui apparizione gli altri regolarmente si dileguano. Yoko ha pure preso il vezzo di fregare i biscottini indiani a George Harrison, cosa che George odia sopra ogni altra, ed i rapporti si fanno tesi e le registrazioni collettive piuttosto diradate e confuse.
In una di queste, ovvero la primissima take di ‘Revolution’ (che a quello stadio di lavorazione non si distingue molto da un’altra lunghissima orgia heavy rock di nome ‘Helter Skelter’), il gruppo produce un’interminabile improvvisazione che in parte fornisce l’idea di dividere il brano in due versioni (una veloce per il singolo, una rock-blues per l’album) ed in parte stimola John a concepire l’ambizioso progetto della sonorizzazione di una rivoluzione, un esperimento di musica concreta che resta il più distribuito ed ascoltato dell’intera musica contemporanea. Certamente non è estranea l’appartenenza di Yoko al gruppo Fluxus, ma al collage sonoro partecipa brevemente anche George ed il brano avrà l’approvazione incondizionata di Paul, che dal canto suo sta divertendosi con esercizi di stile, fingerpicking, folk rurale, musica da camera e nonsense di vario genere, e non mi chiedete i brani di riferimento perché li conoscete benissimo (voglio sperare).
Quando sono in palla i Beatles producono l’ultimo grande rock ‘n’ roll e l’ultimo brano psichedelico della loro carriera, nonostante qualche sporadica assenza (a un certo punto Ringo non ci capisce più niente e si incazza, e scappa in Sardegna per un paio di settimane lasciando la batteria in mano a McCartney) e molti litigi per la mancata condivisione di scelte musicali (‘Ob-La-Di, Ob-La-Da’ sta sulle palle a tutti meno che a Paul). George partecipa ma si tiene l’asso nella manica, rifiutando per il momento di registrare ‘Something’, e pensa di stimolare la band invitando l’amico Eric Clapton alla registrazione di un brano che tutti conosciamo e che diventerà uno standard in ambito rock. Satollo di musica contemporanea, John si diletta a variare gli stili del proprio modus componendi e si produce nei contributi più eterogenei mai apportati ad un disco dei Beatles, dalla Hollywood music di ‘Good Night’ alla autoanalisi psicanalitica di ‘Julia’, e nello spirito di libertà ed autorealizzazione che regna incontrastato si confeziona un buffo e divertente contributo pure a Ringo, che per il resto torna a giocare a carte con Neil Aspinall fuori dello studio di registrazione.
Facciamola corta. Ad un certo punto George Martin, che è riuscito a scrivere e/o a governare gli arrangiamenti di un terzo si e no dei brani registrati, si trova nelle mani trenta scampoli quanto mai eterogenei e di impossibile classificazione complessiva, dai cinquanta secondi agli otto minuti di durata, e prova a sforbiciare proponendo un album singolo con il meglio di quanto raccolto. Manco per niente, i Beatles si sono innamorati del metodo artistico spontaneo (‘lasciarsi andare, quello che viene è buono’) e insistono per incidere tutto (in effetti nel marasma delle outtakes gli inediti veri e propri risulteranno alla fine solamente un paio, e di uno di questi – una collaborazione estemporanea tra Lennon e Syd Barrett – nessuno avrà il coraggio di proporre la stampa). Paul McCartney prende per la manina il produttore sconcertato e si chiudono in sala di missaggio per 48 ore consecutive, durante le quali il bassista troverà il bandolo artistico della matassa e Martin si produrrà nel miglior lavoro di edizione della sua vita.
La decisione è presa: il doppio disco si chiamerà ‘A Doll’s House’, Casa di Bambola (ispirazione da Ibsen), trasformando l’incredibile varietà fortuita di stili e di esecuzioni in una scelta artistica ed in un punto di forza. Trenta brani assemblati secondo il criterio principe del contrasto: lo scherzo dopo la sinfonia, la riflessione assorta dopo il caos metallico, Hendrix e Cream centrifugati con Mozart e Johnny Cash, Elvis Presley e Stockhausen, tutti i brani assorti e racchiusi senza rimedio nell’universo privato del loro compositore nel momento della creazione, minuscole stanzette nella casa delle bambole, istantanee di vita inconciliabili tra loro e schegge di follia elettroacustica. Trenta brani da ascoltare in blocco, tutto sommato, per non perdere l’unità concettuale che paradossalmente è stata creata solo alla fine, ma funziona splendidamente perché i Beatles sono pur sempre i Beatles, diamine.
È un’idea magistrale e risolutiva, ma il concept non è realizzabile perché nella discografia dei Family nel frattempo esce un titolo troppo simile, i Beatles non prendono a prestito idee da nessuno. Il progetto della copertina viene bloccato e nessuno ha voglia di spremersi per trovare un’altra idea così buona, ammesso che sia possibile. Il massimo del titolo alternativo che Paul riesce a trovare sfrutta semplicemente il nome del gruppo, che non era mai stato utilizzato a tal fine e suggerisce l’idea che l’album rappresenti una summa delle loro potenzialità espressive, il che tra l’altro è verissimo. Si genera una bella ed elegante copertina del tutto neutra, quasi anonima, con qualche elemento di contorno (le famose quattro fotografie) e si pubblica ‘The Beatles’.
Il resto è storia, inclusi Charles Manson e la riproposizione integrale dal vivo dei Fish, la cover di Siouxsie e quella in finale di concerto a Mosca di Billy Joel. Back In The U.S.S.R., appunto.
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