La carriera dei Doobie Brothers, tuttora in corso anche se in ampia decadenza, è divisibile in tre distinte fasi: la prima giovanile dal 1971 al 1976 in costante e rapida ascesa, fondata sul dualismo Tom Johnston/Pat Simmons i due chitarristi/cantanti/compositori che si dividono il proscenio, con netta prevalenza del primo dei due.

Il secondo periodo è molto rhythm & blues, con lo spumeggiante ma problematico Johnston rimpiazzato dal talento sornione ed assai individualista del pianista, compositore e soul singer Michael McDonald, e questa parte della storia è compresa fra il 1976 ed il 1982, anno del temporaneo scioglimento del sodalizio.

La terza ed ultima fase, tuttora in corso, parte nel 1989 dopo una pausa di sette anni e vede la restaurazione più o meno dell’originale organico (e conseguente caratteristico suono) della band, con Johnston tornato all’ovile e di nuovo in primo piano. Essendo quest’ultima porzione di carriera quella adulta e coi nostri nel frattempo ampiamente scivolati fuori di moda, la relativa produzione discografica è decisamente più rarefatta, ma comunque presente: i Doobies da ventisei anni in qua son riusciti a pubblicare quattro album di nuove canzoni, più uno di rifacimenti e duetti vari sui loro classici di gioventù.

L’album in questione, datato 1989, segna l’inizio della terza fase di cui sopra, consentita come già detto dal ritorno di Johnston in buona forma e piena grinta dopo l’ulcera (?... mah, secondo me la strafattanza) che l’aveva messo fuori gioco ancora in pieni anni settanta. I Doobies qui se ne fregano degli anni ottanta e delle tendenze imperanti o meglio le fanno loro solo in piccola parte, indurendo un poco il suono che però non deborda certo in hard rock o melodic metal che dir si voglia. In controtendenza, si rendono meno commerciali della fase McDonald (la meno interessante, a mio orecchio) pur restando accessibili come sempre. Il disco espone l’abituale, rigogliosa mercanzia di questo sfaccettato gruppo, capace di mischiare il rock’n’roll con il funky, il country con il rhythm&blues, i magnifici cori gospel con il virtuosismo strumentale, l’istinto melodico con il grande groove determinato da una pregevole coesione e un naturale istinto a non strafare, a lavorare in team.

Purtroppo la loro proposta tipicamente californiana non è merce capace di sfondare di qua dall’Atlantico. E’ il destino di altre grandissime formazioni di quelle parti… ne cito un paio strettamente apparentabili ai Doobies ovvero i Little Feat e Tom Petty coi suoi Heartbreakers, tutta gente dall’ampio spettro stilistico, dall’encomiabile equilibrio fra semplicità, accessibilità e consistenza, dalla notevole e mai ostentata abilità musicale (specie i Doobies) sempre immersa in un gioco corale che privilegia il risultato finale, la consistenza e il “tiro”. Ciò mi angustia perché, da italiano e quindi in controtendenza, sin da ragazzo ho percepito queste realtà musicali californiane come dei veri punti fermi nel mio personale gusto per il rock.

Dieci sono le canzoni presenti nell’album e le migliori, a parte il singolo “The Doctor” che spara a tutta forza e simpatia quella che è per noi un’ovvia certezza, ovvero che la musica è come un dottore per molti mali, si rivelano essere la funkyssima “South of the Border” col solito riff rasposo di chitarra acustica che farebbe muovere il sedere anche alla mia vecchia mamma, e poi anche la lirica “Tonight I’m Coming Through”, dai begli accordi scanditi dalle chitarre.

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