I Fugs, a loro modo, sono stati rivoluzionari, come attivisti della controcultura e come capostipiti della musica Underground.

Newyorkesi, del Geenwich Village, Ed Sanders, poeta anarchico, e Tuli Kupfberger, epigono della Beat Generation, smaniosi di sperimentare e di applicare i loro versi, e parossismi, alla melodia, formarono, nel 1964, i “Fugs” con il disegno di sovvertire la cultura dominante attraverso canzoni-poetiche di satira e di protesta. Con testi offensivi, osceni e schierati apertamente contro il sistema, prendevano di mira tanto i totem e tabù culturali, quanto gli interventi militari volti a bloccare l’allargamento dell’area comunista, alfieri di una libertà di espressione, come mai sospettata in precedenza, almeno nel panorama della musica popolare. L’amore per William Blake e soprattutto per i contemporanei, Allen Ginsberg e Charles Bukowski, traspare dalla loro scrittura licenziosa, sconveniente e spudorata, che, li pone in continuità sulla linea che dai Beatniks porta agli Hippies, e li differenzia dall’impegno politico di Guthrie e Dylan, in ragione di una vocazione per la caricatura spinta e corrosiva, e per il vaudeville delirante e libertario.

“The Fugs”, del 1966, riedito ed ampliato negli anni novanta come Second Album”, replica al debutto ufficiale, al suo spontaneismo anarchico (un melting pot di Folk, Rock, Spiritual, Doo Wop e Jugband Music), con un suono , innanzitutto, più professionale e rifinito, conseguenza dell’ingresso nel collettivo di Peter Stampfel e Steve Weber, degli Holy Modal Rounders. Questa volta infatti, i nostri, sembrano lambire quello che comunemente si designa col termine “suonare”, cosa che era, in definitiva, sfuggita di mano, nel primo pur immane capolavoro. Se lì avevano inaugurato, nell’ipertrofico e selvaggio dilettantismo, “tutto” il filone del Rock Alternativo, in virtù dello sregolamento e della deformazione dei canoni dell’esecuzione musicale (e contestualmente dell’ascolto), ora, procedendo in quella direzione, giungono ad esiti inattesi. Forse perché “Il migliore interprete dei sogni è colui che li fa.”, come aveva sentenziato Ch. Bukowski.

La strumentazione povera, un po’ esotica, e i cori da osteria, o, al meglio, da circolo di folksinger diseradati, sono sintonici al canto sgraziato, nasale di “Ed & Tuli”; il loro “Free Speech” offusca l’armonia Folk, in una urgenza dilagante, questa volta marcatamente Rock, “contro”. L’umorismo rozzo imperversa, anche questo decisamente in anticipo sui tempi. Così gretto lo ritroveremo negli smaglianti Dead Kennedys di Jello Biafra o nelle trovate istrioniche dei Butthole Surfers. Ma l’innovazione delle forme è, forse, e proprio qui, il loro lascito principale: col loro Comedy Rock e Folk Rock, più intellettualoide che intellettuale, hanno saputo essere Proto Punk, Pre Garage-Rock, ed, anche, precursori della Psichedelia. Avant, in definitiva, in tutto e per tutto. La loro importanza supera decisamente la bellezza delle loro canzoni, ovviamente adorabili, perché sono riusciti ad andare davvero oltre se stessi.

Prediamo il brano “Virgin Forest”, una accozzaglia di rumori naturali, suoni dilatati, ritmi tribali, contrarianti cacofonie, urla maniacali, paranoiche e belluine, rammendi sforbiciati, cuciti e giustapposti. Questa inusuale “jam” vanta almeno tre meriti: presentare una psichedelia molto primitiva, embrionale, che potremmo accostare al lato più sperimentale ed eccentrico di Ummagumma dei Floyds. Essere, probabilmente, il primo brano della storia di Noise Rock, poiché precede le straordinarie “Free Forms Freak Out” dei Red Crayola. Anticipare, col suo incedere multiforme e cangiante, i collages sonori di Frank Zappa & The Mothers of Ivention di ”Freak Out”, e, soprattutto di “Absolutely Free”.

Tra gli altri brani risultano lodevoli: il R’n’R/Rythm’n’Blues di “Frenzy”, la mantrica “Morning Morning”, un duetto con una delicate voce femminile, a ingentilire Kupfberger, “I Want To Know”, degna degli episodi melodici, più “leggeri” di “The Velvet Underground & Nico”, e, dulcis in fundo, “Kill for Peace”, un inno beffardo, emblematico, disgregante, maledettamente analitico nella sua pungente valenza ossimorica.

I Fugs, dal nome che storpia il più comune e colloquiale dei termini slang (i.e. “Fuck”), nell’America degli anni sessanta, dell’anticonformismo fecero decisamente una forma di arte: scarna, ma provocatoria, approssimativa, ma irriverente e politicizzata, rozza, ma oltremodo creativa. Fugs docent. Allora “impara l'arte e mettila da parte”.

Carico i commenti... con calma