A due anni di distanza dallo sfolgorante album di debutto, i The Killers dimostrano per la seconda volta tutto il loro talento, sfoderando dal cappello un secondo disco di stupenda fattura, definito dallo stesso Brandon Flowers come uno dei migliori album degli ultimi vent’anni, e il sottoscritto gli dà pienamente ragione: ci sono due motivi particolari per cui amo questo disco; uno è l’accattivante veste grafica: “Sam’s Town” è infatti l’unico disco con un caprone in copertina che non mi suscita né scherno, né ilarità, né disprezzo, e l’altro è la struttura stessa dell’album: riascoltandolo decine e decine di volte, studiando in particolar modo il flusso con cui si susseguono le canzoni, ed esaminando i testi, sono giunto alla conclusione che “Sam’s Town” è un concept album non dichiarato, una specie di film senza immagini che racconta una storia che ognuno è libero di interpretare a proprio piacimento.
C’è una sorta di filo rosso che lega tutte le canzoni che, a mio modo di vedere, rappresentano diversi momenti ed emozioni della vita di un personaggio fittizio, magari lo stesso Brandon Flowers o magari anche no: il preludio della storia è uno degli episodi più entusiasmanti di tutto l’album, ovvero la titletrack, ”Sam’s Town”, con quella spavalda intro in cui si fondono chitarra, basso ed elettronica e Brandon Flowers che si lancia in una delle interpretazioni più riuscite e gagliarde della sua carriera, in particolare nel travolgente e riuscitissimo ritornello; la canzone sfuma lentamente per introdurci al vero e proprio inizio della nostra storia: una linea di piano e la voce di Brandon Flowers, tutto qui, bellezza pura e semplice, questa è “Enterlude”, che per cinquanta secondi scarsi traghetta l’ascoltatore verso il crescendo passionale del primo singolo, “When You Were Young”; la canzone dei Killers che amo meno, ma che esprime un gusto stilistico nella fusione tra rock e melodia che ha davvero pochissimi eguali al mondo. Da mozzare il fiato invece la successiva accoppiata, che si fonde quasi fino a formare un unico discorso musicale, un unico flusso di coscienza: “Bling (Confessions Of A King)”, che con la sua atmosfera rock un po’ malinconica ma al tempo stesso intensa, sentita e coronata da una bellissima linea di basso mi fa pensare ad un ipotetico viaggio tra le grandi pianure d’America, tra campagne, praterie incolte e villaggi, e poi “For Reasons Unknown”, più intimistica, più riverberata e nobilitata da un ritornello un po’ ubriaco ma di rara bellezza.
E poi si arriva alla chiave di volta del disco, ricordo ancora quando riuscivo e restare anche per mezz’ora sintonizzato su MTV, sorbendomi tutte le schifezze possibili e immaginabili sperando che passassero quella canzone: ”Read My Mind”, una ballata di sublime bellezza, uno squarcio di melodia che entra dolcemente nelle vene per non uscirne mai più, la più bella canzone dei Killers insieme a “All These Things That I’ve Done”, di cui fu girato uno stupendo video, perfettamente in linea con il livello della canzone. A risvegliare dall’estasi l’ascoltatore ci pensa l’amara “Uncle Johnny”, un rock cadenzato, sporco, con un riff ossessivo che segue tutta la canzone. Capitolo a parte per “Bones”, altro capitolo che non amo alla follia, forse perché non riesco ad attribuirgli una posizione ben definita nel mio ipotetico concept album, ma la canzone di per se è molto piacevole e orecchiabile, con gli arrangiamenti messicaneggianti a dare un tocco di originalità.
E così siamo arrivati quasi alla fine del viaggio, ma i Nostri hanno ancora qualcosa in serbo per noi: un trittico finale di una bellezza struggente: “My List”, una ballata scura, molto intimista, cadenzata e coronata da un finale in crescendo davvero commovente, e poi “This River Is Wild”, una tempesta emozionale con un ritornello strepitoso e un altro finale commovente, questa volta in calando, degna chiusura di questo cerchio perfetto è l’anthemica “Why Do I Keep Counting?”, sintesi perfetta delle due track precedenti, con quell’inizio dolce e un po’ stralunato a suon di carillon e lo stupendo refrain corale, che suona cosi come un’appassionata e accorata richiesta di aiuto, che sfuma nell’outro “Exitude”, che chiude il cerchio così come “Enterlude” l’aveva aperto, in bellezza e in punta di piedi. Non ho nient’altro da dire, tranne che sono sinceramente impressionato dalla bellezza e dalla moltitudine di sensazioni che quest’album può regalare se ci si abbandona completamente al suo flusso.
“There’s a plane and I am flying, there’s a mountain waiting for me, oh these years I’ve been so trying…”
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